GIAPPONE: OBIETTIVO CENTRATO

I quarti di finale iridati restano un tabù per Italrugby. Centrato l’obiettivo minimo per la rassegna iridata giapponese del 2019 – il terzo posto nel girone e la qualificazione ai Mondiali francesi del 2023 sono in cassaforte dopo le vittorie con Namibia e Canada – per la Nazionale di Conor O’Shea il sogno di entrare per la prima volta tra le prime otto si infrange contro la corazzata sudafricana all’Ecopa Stadium di Shizuoka.


Inutile dilungarsi, come sia andata la partita è noto a tutti: equilibrio sino a metà gara, con gli Springboks due volte in meta e l’Italia a rimanere aggrappata all’incontro (17-3) con la forza di volontà che è da sempre tratto distintivo della Nazionale. Poi il rosso sciagurato ad Andrea Lovotti per lo spear tackle ai danni di Vermeluen, i quasi quaranta minuti di inferiorità numerica, un 49-3 finale che costringe all’impresa su rientro per l’Italia.

Inutile addossare le colpe al pilone piacentino reo del fallo su Vermeulen o su Quaglio, l’altro pilone azzurro protagonista dell’azione che ha cambiato le sorti di una partita pianificata, studiata e attesa per tre anni, dal giorno del sorteggio mondiale: il Sudafrica avrebbe vinto comunque l’incontro. Differenti la fisicità che le qualità in campo, l’Italia avrebbe dovuto sfornare la prestazione perfetta e il Sudafrica ripetere la prova inconcludente del novembre 2016 a Firenze, il punto più alto della gestione di Conor O’Shea.

Il CT irlandese dell’Italia, sbarcato ad aprile di ormai tre anni orsono nel nostro Paese, con ogni probabilità non proseguirà la propria avventura con la FIR dopo il 6 Nazioni 2020. La Federugby avrebbe voluto confermarlo, perché al netto dei risultati ha saputo dare fiducia, identità e organizzazione al movimento di vertice, ma la scelta dell’uomo di Limerick pare andare in altra direzione. Dove sia destinato non è al momento dato sapere, certo è che il suo addio rischia di far compiere al rugby italiano d’elite un carpiato all’indietro sotto molteplici punti di vista, non ultima quella legittimità internazionale che O’Shea aveva saputo rilanciare sin dal suo arrivo.

Di certo, il Mondiale giapponese diviene il palcoscenico di tanti addii illustri per la maglia azzurra, con tre leggende all’ultima uscita internazionale di carriera. Monumenti come capitan Parisse, Leonardo Ghiraldini e Alessandro Zanni, autentiche icone della Nazionale di questo primo scorcio di millennio, sono arrivati ai titoli di coda dopo qualcosa come oltre trecentosessanta test-match complessivamente disputati.

All’orizzonte si affaccia una nidiata di volti nuovi, quella profondità che O’Shea ha a lungo inseguito durante il proprio mandato appare molto più concreta di quanto molti critici sembrino voler riconoscere: perché oltre ai vari Steyn, Polledri, Negri, Allan, Bellini, Riccioni o Minozzi molti altri giovani attendono la propria chiamata dopo aver stabilmente portato le nazionali giovanili ai vertici del continentali e nella top ten mondiale nelle ultime stagioni. Il futuro azzurro passa per i Cannone, i Lamaro, i Garbisi e tanti altri giovani talenti che hanno iniziato a ritagliarsi un posto in Guinness PRO14 o stanno cercando di mettersi in mostra nel Peroni TOP12.

Il lavoro è ben lungi dall’essere finito, ma una volta smaltita l’inevitabile delusione per non aver raggiunto il sogno dei in Giappone il rugby italiano potrà tornare al lavoro consapevole di essere, tra le mille difficoltà che caratterizzano lo sport d’alto livello, sulla strada giusta.