Salute

DOP o IGP?

L'orto del vicino non è sempre più verde...

Pochi mesi orsono l’Unione Europea ha voluto calcolare il totale delle violazioni a carico di una parte del sistema agro-alimentare comunitario, in particolare quelle relative ai prodotti protetti da Indicazione Geografica (IGP) o Da denominazione di Origine (DOP), estendendo l’analisi anche ai prodotti alcolici, vini e distillati.
Innanzitutto è bene, come sempre, cercare di essere ordinati nel descrivere i fenomeni di vario tipo, quindi facendo un passo indietro capendo, innanzitutto, di quale mercato si parli in EU a proposito di DOP e IGP.
Ma prima ancora, cosa sono esattamente DOP e IGP? Questi due “marchi” sono chiamati titoli di proprietà intellettuale sui generis, in quanto a differenza dei marchi veri e propri, non distinguono un prodotto / produttore, ma vengono attribuiti appunto nell’un caso (IGP) quei prodotti agricoli e alimentari per i quali una determinata qualità, la reputazione o un'altra caratteristica dipende dall'origine geografica, e la cui produzione, trasformazione e/o elaborazione avviene in un'area geografica determinata, mentre nell’altro caso (DOP) viene attribuito a quegli alimenti le cui peculiari caratteristiche qualitative dipendono essenzialmente o esclusivamente dal territorio in cui sono prodotti. Fatta questa premessa arriviamo al passo successivo. L’UE decide, a un certo punto della propria vista, nella direzione di cercare di dare maggiore protezione alle produzioni tipiche del settore alimentare EU, di intraprendere la strada della distinzione maggiore e, quindi, di una possibilità maggiore di protezione.
Un sistema, insomma per sintesi, che sia in grado di affiancarsi probabilmente in molti casi alla proprietà intellettuale tradizionale (in questo caso ci riferiamo ai marchi), potendo indicare particolari qualità e cura del prodotto stesso, come visto poco sopra.
Questa direzione intrapresa dall’EU arriva, quindi, a identificare IGP e DOP come strumenti di distinzione, quindi, non tanto del produttore o del prodotto singolo, ma del sistema di regole che possono “coagulare” differenti prodotti/produttori, al fine di farli entrare sotto uno scudo di protezione (il DOP o l’IGP) che possa collettivamente dar valore a ciò che fanno.
Abbiamo cercato in parole molto semplici ed essenziali di spiegare le principali differenze. E la domanda che sorge spontanea è: bene, ma tutto ciò funziona? E soprattutto, quanto vale?
Calcoli compiuto nel 2015 in EU dicono che il mercato di DOP i IGP vale circa 50 miliardi di Euro. Sicuramente tanto, forse potrebbe essere di più, ma solo a certe condizioni.
Ad oggi queste decine di milioni di Euro sono realizzate da più di 3200 DOP e IGP a livello comunitario. E’ interessante notare che il mercato EU dei consumi di tali prodotti è estremamente diversificato.
E qui, permetteteci la “malizia”, un po’ si riflettono certi luoghi comuni. Un esempio? Un dato interessante è la spesa pro-capite da parte dei cittadini EU di prodotti DOP e IGP. Ossia: ma alla fine i consumatori le comprano queste eccellenze? Sono attratti da un sistema che, come visto, va a premiare certe caratteristiche di processo e/o territorio e/o materia prima? Se si è francesi si risponde si, anzi oui, poiché i nostri cugini d’oltralpe ogni anno spendono oltre 230€ a testa (neonati e ultra-centenari inclusi) in prodotti DOP o IGP. Se si sale un po’ più a Nord, e si arriva in Olanda, la risposta è un po’ meno positiva ed entusiastica, dal momento che ad Amsterdam e dintorni si spendono solo 34€ all’anno in prodotti DOP e IGP. Il luogo comune? Che francesi, spagnoli, italiani (a proposito: anche nel nostro Paese la spesa in DOP e IGP è alta, sfiorando i 200€ pro-capite) vogliano e amino mangiare bene si sa, quindi essendo attenti a prodotti più di eccellenza, laddove metodi, materie prime e qualità sono distintivi, mentre altrettanto si sa o comunque si dice che più si sale in EU meno è sensibile il gusto alla qualità delle materie prime e in generale del buon cibo. Un luogo comune? Certamente sì, anche se questi dati potrebbero comunque farci venire qualche sospetto….
Detto del mercato complessivo dei prodotti di eccellenza con indicazioni protette, possiamo iniziare a capire cosa si intenda per violazioni.
A differenza che per prodotti manifatturieri in cui la violazione consta dell’esatta replica del marchio, ad esempio, i questi ambiti abbiamo un sistema più ampio.
C’è, certamente, la violazione dei due “marchi” DOP e IGP, laddove vengono apposti sulle confezioni di prodotti che non hanno le caratteristiche per rientrare in queste categorie. Altrettanto, però, avviene quando ci si attribuisce meriti che non sono propri per caratteristiche, ossia che rendono il prodotto non adeguato a rientrare nella categoria del DOP o IGP. Un esempio classico è quella di territori vicini, in cui uno sia IG, e dove i “vicini” sfruttino questa comunanza geografica solo di vicinato, per attribuire medesime qualità del prodotto “bollinato”.
Questo detto, allora facciamo due calcoli insieme all’EU. SI stima che le violazioni ammontino a circa 4.2 miliardi di Euro. Tanto, se si pensa che è grosso modo il 9% del totale del mercato.
Ma alla fine, come si compone una violazione? Citiamo un caso concreto di cui oggi si conoscono i minimi dettagli grazie ad un’operazione della Guardia di Finanza. Un bel giorno alcuni soggetti decidono di diventare imprenditori dell’olio, e quale migliore cosa se non interessarsi a produrre un bell’olio verde denso, dall’aspetto di un ottimo extra-vergine di quelli artigianali (il famoso piccolo produttore di eccellenza, altro che la grande indutria….)? A questo punto, dato che i mercati Sud-europei si dimostrano, come visto, sensibili a prodotti “bollinati”, perché non pensare di apporre alla confezione anche una bella DOP?
Se lo sono chiesti e hanno trovato la soluzione. Hanno individuato in Spagna la materia prima, e hanno deciso d’importarla. Ovviamente l’olio lascia la Spagna, arriva in Italia, e la sua origine è chiaramente…spagnola.
A questo punti i nostri brillanti “imprenditori” decidono che i documenti dell’olio e l’olio stesso viaggino in maniera separata. Si sa mai, magari potrebbe nascere qualche dubbio sul luogo di nascita del nostro condimento. Così mandano le carte da una parte e nel viaggio, non si sa come e non si bene perché (ma in realtà l’indagine dirà il come, il chi, il perché, il dove e tutto il resto) diventano documenti italiani. Così, quasi magicamente, forse in base a una sorta di “naturalizzazione”, il nostro olio diventa un olio Italiano 100%. E poi si dice che non siamo un Paese ospitale!
A questo punto i nostri imprenditori hanno l’olio pronto per essere imbottigliato. Lo lavorano un po’, giusto per farlo proprio apparire un olio italiano extra-vergine 100%, lo etichettano e alla fine gli mettono il bel bollino DOP umbro.
Questo perché, nel suo processo di naturalizzazione, il “nostro” nel frattempo è diventato da spagnolo a umbro. Quindi il tutto è pronto per essere venduto.
E’ sempre buffo, leggendo le carte di questa inchiesta, poter visionare alcune delle intercettazioni telefoniche tra questi soggetti e i loro clienti, dei grossisti evidentemente non molto avvezzi né ai prodotti di qualità, né tantomeno alla vera qualità del prodotto; parlando del margine (un po’ alla buona verrebbe da dire) che ci si può fare sopra. Ebbene in una delle varie telefonate “l’acquirente” si lamenta e dice “ma insomma, ti avevo chiesto un olio che almeno sembrasse extravergine…” e il venditore (uno dei nostri brillanti imprenditori) gli risponde “beh, a 1.88 il litro, cosa pretendevi….?”.
Questo semplice dialogo svela il tutto. L’olio spagnolo, “naturalizzato” umbro, etichettato DOP, va in vendita, grazie anche alla sua etichetta DOP, a un prezzo che garantisce bei margini. Margini di cui, per la cronaca, i nostri imprenditori non hanno potuto godere….
A questo punto, visto come avviene una delle molte tipologie di violazione (a volte chi effettua le violazioni non si prende nemmeno la briga di essere tanto sofisticato. Serve dell’olio? Ma perché andare fino in Spagna, prendiamo un po’ di olio a minor costo, aggiungiamo un po’ di olio per lampade, un altro po’ di olio di frittura esausto, mettiamoci un po’ di colorate per renderlo verde e torbido come piace tanto a chi compra olii “quelli buoni davvero”, gli appiccichiamo un bollino DOP, ultimo tocco un po’ di essenza di quella giusta, e il prodotto è pronto per la vendita).
Come vediamo è molto semplice, e il tutto fa leva sul fatto che nel consumatore di un certo tipo funziona la relazione etichetta DOP+caratteristiche artigianali o bio= prodotto buono. E quindi compra. Paga anche un po’ di più, ma la qualità, si sa, merita qualche sforzo. E il nostro consumatore così casca nel tranello, ingannato da alcuni elementi che si fa in fretta a copiare. Colore dell’olio, perfino odore almeno nel breve periodo e etichetta. Voilà, più semplice di così…..
Ma siccome non di solo olio vive l’uomo, ecco che allora il giochino di prendere delle DOP o IGP e imitarle vale per molti prodotti. Che siano formaggi, insaccati, prodotti freschi, più hanno “successo” e acquisiscono fama, più possono correre il rischio di essere copiati.
Questo è tanto più vero tanto più si conosce il meccanismo delle DOP e IGP. Ossia: identificando quel che identificano, mettono all’interno degli stessi criteri sia produzioni su larga scala che micro- produzioni, che spesso faticano ad uscire dal territorio in cui nascono e vengono consumati. Ossia: pensiamo al Parmigiano Reggiano e al Pecorino di Picinisco. Entrambi hanno riconoscimento IG, ma chiaramente il primo è un prodotto iconico nel mondo, il secondo, pur eccellenza, fatica a essere conosciuto all’interno del nostro stesso Paese. E, forse, all’interno della stessa Regione Lazio in cui nasce.
Questo incidentalmente ci fa anche arrivare a un altro tema, importante, che occorre però analizzare brevemente parlando di food e di violazioni. L’idea EU di classificare le eccellenze dando segni distintivi è stata certamente positiva, ma ha un po’ confuso gli animi, sia di operatori che di consumatori. Difatti si è dato un ruolo a questi “bollini” che nel corso del tempo è andato anche nella direzione di identificare l’eccellenza stessa, ovvero come si dicesse “caro consumatore, questi prodotti sono eccellenze, e per il solo fatto di trovare un bollino di questo tipo, sappi che questo prodotto è un insieme di valori che non troverai in null’altro”. Questo, che sarebbe il chiaro scopo di un marchio commerciale, è stato quindi un uso non totalmente adeguato di un marchio sui generis, come visto, che non dà visibilità come detto a un solo prodotto o produttore. Ed in più a differenza di un marchi “privato”, in questo caos nessun investimento di rilievo è stato attuato per “spingere” il prodotto marchiato. O meglio: si è lavorato sul senso si eccellenza, ma non creando quel link sistema di eccellenza/prodotto da comprare che è alla base del commercio.
E’ da dire, però, che le regole stesse di bollinatura pongono i primi limiti alla diffusone dei prodotti stessi. Se, per assurdo, volessimo pensare di raddoppiare la produzione di Parmigiano Reggiano, quanto tempo ci vorrebbe? Basterebbe aprire un nuovo stabilimento in Messico per farlo ad esempio (Trump permettendo, che ci tweeterebbe contro entro circa 10 secondi dalla nostra decisone?). Eh no, non è così semplice. Se, per assurdo, volessimo raddoppiare il prodotto in questione, dovremmo andare a capire come e cosa indica per la sua produzione (intendendo tutto il ciclo) il disciplinare di riferimento. Ossia quell’insieme di regole che ne permettono la bollinatura. Ebbene, vedremmo che ad esempio dovremmo più che raddoppiare le mucche dal cui latte si ricava il prodotto, ma a quel punto dovremo per assurdo trovare il modo di allargare l’Emilia Romagna, dato che le mucche dovrebbero stare sul territorio. Insomma, stiano tranquilli toscani, umbri e lombardi: l’Emilia resta lì dov’è, di allargamento per ora non si parla.
Questo “problemino” sopra esposto ha una soluzione? Probabilmente si: produrre qualcosa di simile, magari buono in maniera simile, ma non approvi alcun bollino né chiamarlo in quel modo. E allora direte, cari lettori, ma tutto quel battage sull’italian sounding? Qui volevamo arrivare in effetti.
Abbiamo iniziato l’articolo con un po’ di precisazioni. Magari noiose, sicuramente un po’ sottili all’occhio del profano, ma essenziali per non farsi prendere, poi, arrivati al “problemino”, da isterie collettive. Se, per esempio, per restare un po’ nell’ambito delle isterie, prendiamo i dati che troppo spesso anche la nostra politica cavalca, e che ad esempio Coldiretti ama spesso lanciare come denuncia, vediamo che tutte le imitazioni dei prodotti italiani, questo terribile sounding incluso, ci privano di 60 miliardi di Euro.
Ora: siamo tutti concordi che 60 miliardi ci farebbero un gran comodo per sistemare le dissestate casse statali. Però….keep calm and not hysteria! Se davvero volessimo pensare che mancano 60 miliardi di prodotti agro-alimentari, allora avremmo dei problemi seri. Altro che allargare l’Emilia, dovremmo far invadere il suolo patrio di bovini, nonché dovremmo disboscarlo integralmente per coltivarvi solo ulivi. E dovemmo anche iniziare a pensare a sistemi multi-piano per le nostre vigne, con buona pace degli abitanti di Valdobbiadene che dovrebbero cedere le loro case in nome dell’isteria da cibo italiano.
Questo atteggiamento porta, però, a un senso di “noi-contro-loro” che non ha molto senso. Non ne ha nei numeri, non ne ha nei fatti. Una indagine di un anno fa su un campione molto ampio di americani, dimostra che non sono dei barbari. Forse hanno gusti diversi dai nostri e certamente in buona parte meno “raffinati”, forse non vanno tanto per il sottile quando devono mettere un formaggio filante sulla pizza, non curandosi se sia mozzarella DOP o prodotta in Texas, ma non sono degli “zoticoni” in cucina. L’indagine ha dimostrato che comprano parmesan (perché sempre qui arrivano gli isterici, fateci caso…) del Wisconsin se vogliono un formaggio a grana dura stagionata e ben sanno, comprandolo, che è del Wisconsin. Semplicemente non importa. Se, parafrasando una vecchia pubblicità dei detersivi, arrivassimo con due pezzi di prelibato parmigiano e li volessimo dare al consumatore medio USA al posto del suo parmesan del Wisconsin, magari non gli interesserebbe, dal momento che ha comprato con sale in zucca e ben conscio.
Diverso, e qui l’indagine è precisa, quando il nostro pezzo di formaggio fabbricato in Wisconsin viene associato ad un tricolore, ad una frase italian, a un riferimento al nostro Paese; allora sì che il consumatore cade in inganno. Non leggendo l’etichetta. La quale, a onor del vero, non ha ancora obblighi rilevanti per indicare la tracciabilità del prodotto, ovvero tutta la sua storia. Per evitare, così, strani fenomeni di naturalizzazione, come abbiamo visto facili nelle truffe, ma anche nella mente di un consumatore che compra spesso in maniera superficiale ed in fretta.
Quindi alla fine alcuni consigli: non cediamo alla tentazione del giudicare un prodotto solo dalla presenza dei bollini. Prendiamo qualche informazioni in più. Non pensiamo che tutto il mondo è brutto e cattivo e ci ruba 60 milairdi; non siamo isterici e ….. salviamo i confini dell’Emilia Romagna. Diamo valore al prodotto di marca, che è comunque sempre parte di un processo di grande responsabilità. Perché le insidie possono nascondersi ovunque e la gente senza scrupoli è in crescita. E potrebbero proporvi dell’olio al tartufo che non ha mai visto uno dei pregati tuberi nemmeno in fotografia ma che in compenso deve il suo aroma a un derivato del petrolio. Oppure un miele che in realtà viene da scarti ed è addizionato di zucchero di barbabietola.
Tutte cose che un’etichetta dovrebbe dire, ma che ancora non deve dire.
Niente isterismi, siamo seri: i prodotti italiani sono certamente ottimi, ma non pensiamo che solo i nostri lo siano e che solo le violazioni a nostro carico debbano essere combattute. Lunga vita al Parmigiano, lunga vita al Camembert!