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    ANDY DIAZ. UN LUNGO SALTO VERSO LE OLIMPIADI

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Corri ancora Marcell

Di Luigi Capasso

A quasi un anno dallo storico Oro, Jacobs si racconta.

Purtroppo il Golden Gala hai dovuto saltarlo e fernarti. Ma nel libro scrivi che ogni infortunio è una rampa per fare meglio...

 

È sempre stato così, e ne sono assolutamente convinto. È successo nel maggio 2015, al Meeting di Gavardo. Avevo affrettato i tempi dopo un piccolo infortunio che avevo avuto facendo il record di 7.75 di lungo juniores indoor ad Ancona, avrei dovuto riposare e invece andai di nuovo in pista. Avevo buone sensazioni, ma allungai il passo pensando di non arrivare alla pedana e al momento dello stacco – all’epoca la mia specialità era ancora salto in lungo – saltando sentii un dolore lancinante alla gamba sinistra. Successe che un tendine scese di quattro centimetri e dovetti stare fermo quattro mesi. Ma quell’incidente accelerò il mio passaggio a Paolo Camossi come coach e insieme ripartimmo alla grande. Un altro passaggio duro fu a Glasgow: dissi addio al lungo dopo tre nulli e mi convertii alla velocità, che peraltro già facevo con ottimi risultati. Ogni caduta, ogni inciampo, è un’occasione per rialzarsi e fare meglio. È una costante del mio percorso umano e della mia carriera sportiva.

 

Sicuramente i tuoi pensieri sono già in francese...Parigi 2024 non è così lontana...

 

Mi sentivo pronto per le Olimpiadi di Tokyo 2020 prima che fossero rinviate di un anno per via del Covid. E fu un dispiacere quel rinvio. Alla fine, però, è andata bene così, perché i due Ori li ho vinti nel 2021. Adesso è un bene che le prossime Olimpiadi abbiano un intervallo non di 4 ma di 3 anni. Un passo alla volta. È evidente che l’obiettivo è ripetere i successi di Tokyo. Ma prima di arrivare a Parigi ci sono tante altre gare importanti. 

 

Il Mito Usain Bolt...il tuo idolo da ragazzo. Ma cosa ti hanno raccontato della freccia del Sud, Pietro Mennea...

 

Per anni ho rincorso, io come gli altri velocisti italiani, il leggendario record ottenuto da Mennea nel ‘79 a Città del Messico, a quasi 2300 metri di altitudine. La forza di Mennea stava tutta nella sua caratteristica di non irrigidirsi, di non decelerare e non accorciare mai il passo, per questo la sua specialità erano i 200 metri. Molti mi hanno paragonato a lui per la sua capacità di accelerare progressivamente. Mi sento molto vicino a Mennea anche nella determinazione che ci metteva. 

 

Il tuo libro è già un gran successo. Ci ha colpito il passaggio che racconti cosa sarebbe cambiato se avessi fatto 9.79...Questo è il mantra per migliorarti sempre?

 

 Quando ho rivisto, dopo la gara olimpica, Paolo Camossi, il mio “golden coach”, la prima cosa che ci siamo detti non era evviva per la vittoria, ma peccato per quel 9’79 che nell’arrotondamento era diventato 9.80. Ecco, quel centesimo in più mi ha fatto plasticamente capire, già sul traguardo di Tokyo, che c’è sempre la possibilità di migliorare. Che una volta coronato un sogno, non si smette di sognare e la linea del traguardo si sposta in avanti. È questa convinzione che mi tiene vivo ogni volta. E mi spinge oltre.    

 

Come il reatino Andrew Howe gareggiavi in doppia specialità. Ricordi un momento, un dettaglio, un aneddoto di quando decidesti di "sposare" la velocità e non il salto in lungo.

 

 Sì, Andrew è stato uno dei miei idoli. La decisione di passare alla velocità, come ho detto, la prendemmo a Glasgow, in Scozia, subito dopo i tre nulli che mi fecero squalificare agli Europei. E dire che ero il favorito... Paolo venne da me e disse: “Sono io che ti porto sfortuna”. “Ma che dici”, risposi. Non esistono persone che portano sfortuna. E cominciammo a dare ciascuno a sé stesso la responsabilità di quello che era successo, finché lui mi guardò e ci intendemmo in un attimo: “Paolo, forse è bene che io mi dedichi alla velocità”. E fu così che ebbe inizio la traversata del deserto e il percorso che ci ha portati a Tokyo 2020.

 

La tua carriera ha un prima ed un dopo. Come se un bel giorno fosse scattato qualcosa in te...

 

Non so. Direi piuttosto che si è trattato di un cammino costante, con un obiettivo che è stato quello fin dall’inizio. Per arrivarci sono dovuto passare attraverso una serie di prove che sono riuscito a superare, grazie anche alla meravigliosa équipe che si è formata attorno a me e che ha una parte fondamentale nel mio successo. Il giorno che ha un primo e un dopo è solo il primo agosto 2021. Ma è stato tutt’altro che improvviso, almeno per me, per il mio staff, e per gli “addetti ai lavori”.

 

Per arrivare a essere l'Uomo più veloce la mondo...quanti sacrifici hai dovuto affrontare.

 

Tanti. Ma fa parte del gioco. Il momento di svolta l’ho avuto appena superata l’adolescenza, quando ho dovuto scegliere se lasciarmi andare, divertirmi e basta, fare la vita di molti miei amici e coetanei a Desenzano, oppure allenarmi e seguire i consigli di mia madre e del coach che avevo allora. Il sacrificio più grande l’ho fatto in quel momento, ma neanche lo chiamerei “sacrificio”. Anzi, direi che nello sport non esistono “sacrifici”. Primo, perché correre è esattamente quello che mi piace, io corro con il sorriso... Secondo, perché fare “la dura vita del campione” è una scelta, ed è una scelta gratificante…

 

Sei uno degli sportivi più amati nel nostro Paese. Anche perchè tu hai scelto di avere solo la cittadinanza italiana ed hai rinunciato a quella americana. È stato un gesto di puro amore o di riconoscenza per la tua infanzia a Desenzano?

 

Io sono nato negli Stati Uniti e mio padre era un militare americano. Per questo ho anche il passaporto USA, che ho rinnovato solo per andare in Oregon a gareggiare. Ma mi sento italiano al 100 per cento. Sono nato a El Paso ma ci sono rimasto pochissimo, tanto da non avere neppure ricordi da bambino. Sono cresciuto sul Lago di Garda. Ho respirato aria, cultura e stile di vita italiani. E sono orgoglioso della mia cittadinanza italiana. Però sono convinto che gli Stati Uniti siano un grande Paese, pur con tutta la loro complessità. E ora che ci sono tornato, mi sono sentito bene, come fosse la mia seconda casa. La mia bandiera resta il Tricolore. E sono anche fiero di appartenere alle Fiamme Oro, alla Polizia di Stato, che è stata per me una seconda famiglia e dentro la quale ho coltivato il mio patriottismo. 

 

Essere un'atleta della Polizia ha contribuito alla tua crescita professionale?

 

Certamente! Devo molto alle Fiamme Oro, e il mio rapporto con la Polizia continua al di là degli Ori e allori olimpici. Partecipo ai loro eventi tutte le volte che posso, e sono fiero di incarnarne i valori. L’abnegazione, il senso della Patria, la generosità, lo spirito di servizio.

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