TORNANO GLI ALL BLACKS

Ti tolgono il fiato, non ti fanno respirare e poi ti colpiscono. Spietati, non mollano mai. Nell’ultima partita contro gli Springboks erano sotto di 17 punti. A dieci minuti dal termine la rimonta e la vittoria 30-32 con una meta trasformata all’ultimo minuto. I sudafricani non ci credevano. Essere un All Black significa soprattutto questo. Dedizione oltre ogni immaginazione, senza perdere mai la speranza. Crederci. C’è un aspetto tecnico, di abilità nel maneggiare l’ovale, ma c’è il peso della maglia. Quasi una magia. Una squadra che mette paura. Passano gli anni, le generazioni dei giocatori ma loro rimangono sempre gli stessi. Vincenti, implacabili, senza pietà. Perché nel rugby il massimo rispetto per l'avversario è quando non lo risparmi e vai a tutta. Se non ti faccio sconti vuol dire che ti rispetto. Se gioco più morbido ti offendo. Questione di etica, orgoglio e correttezza. John Kirwan, per dieci anni ala degli All Blacks, per tre CT dell’Italia, racconta che quella maglia è pesantissima. Non è di stoffa ma fatta di storia. Quando la vesti senti una responsabilità enorme. Non puoi deludere. Saresti il primo in oltre 100 anni di partite. E’ per questo motivo che ancora oggi – nell’epoca del marketing più sfrenato - la consegna delle maglie avviene con una vera e propria cerimonia privata alla vigilia del match. Niente fronzoli e microfoni ma parole, strette di mano e sguardi profondi. Sapersi comportare, in campo e fuori. Un anno fa durante il Tour dei British Lions venne espulso un All Black: Sonny Bill Williams. Un trequarti centro veloce come una pantera e forte come un leone. Sonny tirava anche di boxe, proveniva dalla rugby league dove c’è una diversa visione del contatto, molto più rude. Non accadeva da più di 50 anni che un nazionale neozelandese fosse cacciato dal campo con il cartellino rosso. Infamia, fu uno scandalo per tutto il paese. WillIams è tornato a giocare con i “tutti neri” proprio in questo mese di ottobre. Ha scontato la squalifica di due giornate inflitta dalla federazione internazionale ma soprattutto si è riabilitato dal punto di vista sociale nel mondo degli All Blacks. Criteri diversi. 1973, Tour in Gran Bretagna. Gli All Blacks vincono 19-16 con il Galles. Il terzo tempo è senza fine. Si continua a festeggiare anche dopo la mezzanotte nelle camere d’albergo. Verso le 3,00 un giocatore scende nella cucina. Si chiama Keith Murdoch e diventerà una vera icona dell’orgoglio ma anche della vergogna. Keith ha fame e cerca con ossessione qualcosa da mangiare. La sbornia non è ancora passata e quando incontra una guardia di sicurezza dell’hotel scoppia una rissa. La mattina dopo Murdoch viene spedito a casa. Alle 7 meno un quarto lascia l’albergo con la giacca ufficiale degli All Blacks ma senza il simbolo della felce d’argento. “Ciao ragazzi, ho chiuso” dice ai compagni di squadra e nessuno lo vede più. Sembra che abbia fatto scalo a Singapore e poi in Australia senza mai tornare in patria. Non era un tipo facile Murdoch ma nella storia del rugby nessuno era mai stato punito così severamente. Sono tantissime le storie degli All Blacks, una diversa dall’altra ma tutte hanno in comune il grande orgoglio di vestire la maglia tutta nera. Vederli giocare è uno spettacolo, impossibile fare il tifo contro di loro. Sono i veri maestri del rugby, altro che gli inglesi che questo gioco lo hanno solo inventato. Gli All Blacks non sbagliano mai un passaggio e la palla viene gestita con grande perizia tanto che tra loro non esistono più ruoli. Giocatori di mischia e tre-quarti senza differenze. Tutti corrono, tutti segnano, tutti placcano. Quando nel 1903 i Nativi della Nuova Zelanda fecero la prima tournee in Europa un giornalista inglese scrisse nel suo articolo che era impossibile capire chi facesse parte della mischia e chi dei tre quarti perché erano tutti veloci. Scrisse “all backs”, che significa tutti trequarti ma per un errore in tipografia sul giornale venne pubblicato All Blacks. Da lì cominciò la loro leggenda.