Cristiano Barbarossa

D’intralcio all’ovvio

Di Valeria Barbarossa

Regista, autore, da giovanissimo redattore appassionato di sport, musica e verità. Cresciuto in Venezuela, si è occupato di documentari di cronaca, vicende giudiziarie, progetti sociali, ingiustizie. Ha vinto svariati premi tra cui il Premio Flaiano e il Premio Ilaria Alpi. Una sua grande qualità è la curiosità. Il suo talento? Non si ferma alle condanne mediatiche “comode” ma scava nelle vicende portando alla luce nuovi elementi su ciò che, in apparenza, sembra inequivocabile.
Una persona e un professionista che ascolteresti per ore: per i luoghi che ha visto, le esperienze che ha vissuto, le persone che ha intervistato. Meticoloso e mai scontato, è passato dalla carta stampata al video mantenendo lo stesso trait d’union: la fame di sapere.

Cristiano raccontami com’è nata questa tua passione.
È nata strada facendo. Intorno ai 16 anni ho iniziato a scrivere di calcio per alcuni giornali locali e subito dopo per Ciao 2001, una rivista all’epoca molto conosciuta di musica. Ho intervistato musicisti e seguito concerti che recensivo. In seguito, avendo vissuto ed essendomi scolarizzato in Venezuela, ho iniziato a recensire libri di scrittori sudamericani prima che uscissero in Italia. Questo è stato l’esordio narrativo. Il passaggio al video è avvenuto dopo per caso. Durante un viaggio in Sudamerica per il premio “Italia nel Mondo”, ho incontrato un regista, Paolo Brunatto, che doveva fare un documentario sugli in¬dios in Amazzonia (“Lungo il fiume” per Geo and Geo). Mi ha proposto di fargli da producer, è andata bene e dopo quell’esperienza abbiamo continuato a lavorare insieme. Al documentario sull’Amazzonia è seguito, tra gli altri, quello sui baby killer colombiani trasmesso su Rai3 in prima serata. A questo punto la Rai mi prende come autore e regista e faccio il primo documentario da solo: un reportage sulle multinazionali della frutta, in particolare le condizioni dei lavoratori, la violazione diritti umani, l’uso di pesticidi. Va molto bene, così il mio cammino diventa il video e abbandono definitivamente la carta stampata. Due anni dopo ho una proposta da Superquark per cui ho lavorato 12 anni.
Come autore e regista di Superquark hai realizzato, tra i tanti, un servizio sul Futbol Club Barcellona. Come funziona questa realtà?
È un progetto che parte dall’aspetto educativo che lo sport ha sui bambini fino al coinvolgimento sociale che questo meccanismo crea. Il metodo “Barcellona”, infatti, gode dell’azionariato popolare e questo fa sì che le persone si sentano parte di un progetto essendone azioniste. Le famiglie vanno insieme a vedere le partite, c’è una grande presenza di donne e se qualcuno fa qualcosa di strano il pubblico stesso lo mette a tacere. Inoltre lo stadio è sempre aperto, ha tre ristoranti e con un biglietto si possono vedere anche altri eventi sportivi come il basket e l’hockey. In proposito, ricordo le parole dell’allora presidente del Barcellona, Sandro Rosell, che mi disse che proprio grazie al calcio potevano investire sugli altri sport. Questa filosofia la portano in Brasile e non tanto per ricercare nuovi talenti ma anche e soprattutto per aiutare i ragazzini delle favelas ad avere un futuro.
Un’altra tua grande passione, oltre allo sport, è la musica. Raccontami di “A Slum Symphony” grazie al quale hai vinto il Premio Flaiano e il Roma Fiction Fest.
È un documentario che è stato trasmesso in molti paesi. Per sei anni ho seguito dei bambini dei quartieri più poveri e violenti di Caracas. Questo sistema gratuito di orchestre sinfoniche, aperto a tutti, ricchi e poveri, offre, attraverso la musica, un’alternativa di vita a questi ragazzi ma non per farne una fabbrica di musicisti. Attraverso l’organizzazione sinfonica capiscono l’importanza dell’impegno e del lavoro. Qualcuno poi diventa musicista, altri prendono altre strade ma questo percorso se lo portano comunque dentro. Un ragazzo molto povero, Jonathan, ce l’ha fatta: suona il violoncello, ora è in Italia, ha studiato al conservatorio e fa parte di un’orchestra; dal nulla, è emerso. Spero che questo progetto sociale continui come in passato, a maggior ragione ora, che il Venezuela è un paese ormai allo sbando.
Cambiamo direzione e andiamo sul giornalismo d’inchiesta. Vorrei parlare con te del documentario che hai girato in Iraq prima e dopo la guerra e poi di due casi giudiziari di cui ti sei occupato ultimamente: la strage di Erba e il delitto di Avetrana. Iniziamo dall’Iraq.
È stata un’esperienza indubbiamente molto forte. Sono arrivato circa un mese prima dello scoppio della guerra a raccontare l’attesa. Il documentario ha poi comunque seguito anche la fine delle ostilità. Ciò che mi ha impressionato è che prima della guerra, nonostante un dittatore terribile, nel paese c’era una struttura sociale, i negozi avevano le scritte in inglese e coesisteva un interscambio culturale. Finita la guerra, il vuoto rimasto è stato riempito dall’Isis con le conseguenze che conosciamo.
Su Erba e Avetrana faccio una premessa. Con Fulvio Benelli, coautore del format “Tutta la Verità”, avevamo iniziato a fare programmi studiando delle indagini, ineccepibili, della Guardia di Finanza e delle Procure competenti. Dopo l’Infiltrato - Operazione clinica degli orrori (nella clinica Santa Rita di Milano venivano effettuati interventi non necessari al solo scopo di ottenere rimborsi n.d.r.) e Indagine Villa Borea (maltrattamenti a danno di anziani nella casa di riposo di Sanremo n.d.r.), ci viene in mente l’idea di Tutta la Verità: film documentari su casi giudiziari che invece, studiandoli a fondo, non ci avevano convinto. Attraverso la casa di produzione Verve li abbiamo proposti a Discovery che li ha trasmessi in prima serata.
Sono indubbiamente due dei casi giudiziari più controversi degli ultimi anni ma perché avete scelto proprio questi?
Erba sembrerebbe il classico caso da scuola: testimone, prova del Dna e confessione. Caso risolto. Ma non è proprio così. Ci soni molti elementi, fondamentali, che andavano portati alla luce. E i dubbi restano. Avetrana è una riflessione su noi stessi, sul nostro lavoro. I media, in molti casi, hanno una forte influenza. Il circo mediatico influenza gli spettatori, ma soprattutto la giuria popolare. E la procura può influenzare, a seconda di quanto troppo spesso trapela, quel circo mediatico. L’abbraccio tra giustizia e media quindi può essere fatale.
Di Avetrana mi ha molto colpito l’intervista a Valentina Misseri. Lei è fermamente convinta che sia stato il padre ad uccidere la cugina, Sarah Scazzi. Tu che cosa pensi?
Valentina Misseri è un’eroina dolente. È un personaggio tragico perché in entrambi i casi è una vittima condannata ad una sofferenza infinita. In un caso ha un padre assassino, nell’altro la madre e la sorella. E dato che porta avanti la sua battaglia partendo dagli atti processuali, che motivo avrebbe di dire che è stato il padre? Ricordiamoci che la condanna di Cosima e Sabrina, si basa su un’ipotetica bugia di Sarah. Non è una prova e non è nemmeno un indizio, per me, semmai un’ipotesi. A mio avviso su Avetrana e su Erba non si è andati oltre ogni ragionevole dubbio.
Progetti futuri?
Con Fulvio stiamo pensando di trattare la storia di Pantani, ci piacerebbe andare a fondo sulla sua vicenda. Inoltre abbiamo scritto da tempo una sceneggiatura, “Crimine Infinito”, sulle ramificazioni mondiali della ‘ndrangheta, davvero impensabili, un progetto al quale teniamo moltissimo.