teatro

Nicola Pietrangeli: il numero uno.

Il miglior tennista italiano di sempre in un’intervista a tutto tondo: gli esordi, le vittorie, i rimpianti e il sogno di tornare a Wimbledon accolto da campione.

di Giuliano Giulianini e Marco Oddino

Tre titoli a Parigi tra singolare e doppio; una Coppa Davis da capitano; un bronzo olimpico; 48 tornei vinti e il miglior ranking di sempre per un italiano: numero 3 del mondo. Incontriamo Nicola Pietrangeli con timore reverenziale, in considerazione dell’età e soprattutto della caratura del personaggio. Invece ci ritroviamo a conversare amabilmente con un uomo mordace, divertente e battagliero: di carattere, come quando giocava.

Lei ha dei natali molto interessanti: nato a Tunisi da madre russa e padre italiano.
La famiglia di mia madre scappò dalla Russia durante la Rivoluzione dopo la caduta della famiglia imperiale. Dopo una vera odissea, padre, madre, tre figlie, un figlio e una bambinaia, nessuno dei quali parlava una parola di francese, arrivarono nel 1919 a Tunisi. Non dev'essere stato semplice. Durante la Rivoluzione, come tutte le donne per bene dell'epoca, mia nonna aveva fatto la crocerossina e quindi si accollò la famiglia trovando lavoro. Mio nonno era andato in Tunisia a fine '800. Faceva il muratore; poi comprò una cariola... due cariole... i muli, i cavalli, poi dei palazzi e alla fine aveva costruito mezza Tunisi.
La sua famiglia dunque ha subito due esodi: dalla Russia nel 1917, e dalla Tunisia dopo la seconda guerra mondiale.
Quella di mia madre, si, due volte. Non dev'essere stato facile.
Quali sono i suoi ricordi d'infanzia in Tunisia?
Ricordo che mio padre era l'unico ad avere la macchina da corsa, americana. Era molto benestante, ma tutto andò perso. Mio padre fu espulso, non perché fosse un bandito, ma perché cacciarono tutti i ricchi professionisti per requisire loro tutto. Passò più di un anno in campo di concentramento con due fratelli, e poi li mandarono via. Anche io e mia madre fummo espulsi: passammo la notte di Natale del 1946 su una nave di "quarta classe" diretta da Tunisi a Marsiglia.
Fu in quel periodo che lei scelse tra la cittadinanza italiana e francese?
No. Mia madre era diventata francese al compimento della maggiore età in Tunisia. Io scelsi a 18 anni (1951, ndr.) tra la cittadinanza italiana e quella francese: ero già qui a Roma, dall'età di 13 anni; avevo studiato in Francia fino al liceo e se avessi proseguito con gli studi universitari sarei dovuto andare a Lione. Quando arrivai a Roma non sapevo una parola d'italiano, per tutti ero "er Francia".
Quando incontrò il tennis?
Volevo giocare a calcio. Fino a 18 anni giocavo meglio a pallone che a tennis. A Tunisi io scimmiottavo mio padre giocando a tennis contro il muro (che non sono mai riscito a battere). Prima della guerra mio padre era socio del "Parioli". Siccome dopo la guerra non volevano farlo rientrare come ex socio, e di soldi non ce n'erano, lui passò a un circolo lungo la via Flaminia, di fronte al Ministero della Marina. Conosceva il grande Giovannino Palmieri (campione italiano degli anni ‘30, ndr.) e gli disse che anche io giocavo a tennis. Il figlio, Alberto, era già nazionale juniores, e quando ci giocai persi soltanto 7-5 al terzo set. Evidentemente giochicchiavo. Andai così al Parioli, che allora confinava col campo della Rondinella. Un giorno mi affacciai al muro divisorio e vidi la leva dei ragazzi della Lazio che si allenava lì. Scavalcai e parlai col "signor Picchio" che mi chiese: "In che ruolo giochi?", risposi: "Centravanti". Mi fece provare e in una decina di minuti segnai 3 o 4 gol. Mi fece firmare e credo di essere ancora tesserato per la Lazio, perché all'epoca si firmava il cartellino a vita.
Ovviamente è ancora tifoso della Lazio.
Odio il "tifoso". Sono simpatizzante. L'italiano non è sportivo ma tifoso: non gli piace ma è la verità. Il tifoso vuole che la sua squadra vinca in tutti i modi; lo sportivo è un'altra persona.
C'è, o c'è stata anche nel tennis questa distinzione?
Si, uguale. Non voglio dar lezioni a nessuno, sia chiaro. Ai ragazzi dico sempre: intanto imparate a perdere, perché a vincere son capaci tutti. Nello sport, come nella vita, non si può pensare di vincere sempre, quindi: cercate di perdere bene. Sconfitte e vittorie fanno parte del gioco. Per questo non ho avuto grandi rapporti col pubblico romano: prendevo la sconfitta come parte del gioco.
Secondo lei è per questo che da decenni non abbiamo grandi campioni italiani nel tennis?
No. Quella è questione di fortuna. Il campione non si fabbrica. Serve la fortuna che nasca in Italia un ragazzino predestinato a fare quella cosa, e che i genitori, o un maestro se ne accorgano. Non è possibile forgiarlo.
Però è abbastanza singolare che negli ultimi 40 anni non ci sia stato un solo tennista, uomo, che si sia neanche avvicinato ai risultati suoi e di Panatta.
La Svizzera non aveva mai avuto un giocatore di tennis "vero"... ne ha avuto uno "buono", Rosset, poi di colpo ha avuto Federer e Wawrinka. La cicogna ha sorvolato Basilea e ha portato Federer. Se avesse fatto qualche chilometro in più si sarebbe chiamato Federelli. Anche l'Inghilterra, per 50 anni, non ha avuto un giocatore; ora ne ha uno che però non è inglese (Andy Murray, attuale numero uno, è scozzese, ndr.). Americani e Australiani che hanno dominato il tennis per una vita, ora stanno messi male. Quindi noi siamo come gli altri: prima o poi verrà fuori. E' la cicogna.
Visto però che un paio di campioni li abbiamo avuti anche noi, parliamo di trionfi. Nel '59 e nel '60, lei vinse due volte consecutive a Parigi...
... e persi due finali: è importante.
E' vero che non si diede particolare risalto a quelle vittorie? Ancora oggi se ne parla poco.
Pensi che la seconda vittoria di Parigi finì nella rubrica "Notizie in breve" del Corriere della Sera: "L'italiano Nicola Pietrangeli vince per la seconda volta consecutiva il torneo di Parigi". Basta.
Perché?
Era tutto come oggi: l'italiano mangia pane, spaghetti e calcio. Io trovo veramente vergognoso che siamo l'unico paese con tre quotidiani sportivi. Quanti giornalisti sportivi ci sono, contando anche quelli delle pagine sportive degli altri quotidiani? Nei paesi civili c'è una pagina; qui tutti giornalisti sportivi: perché se Totti fa pipì alle quattro e un quarto invece che alle quattro va a finire in prima pagina.
E' vero che quando le nacque il primo figlio lei abbandonò il Roland garros?
Come no, mannaggia a me! (ride, ndr.) Ho fatto una scemata. Oggi non sarebbe possibile. Non che fossi particolarmente emozionato: era il terzo anno (1961, ndr.), a metà torneo andai dal giudice arbitro e gli dissi che sarei partito per Roma. Partii credo la domenica e tornai il mercoledì. Mi fu permesso di rientrare e arrivai in finale.
A suo figlio avrà fatto piacere sapere questa storia.
Si, ma aver vinto Parigi tre volte di fila avrebbe reso un po' di più.
Quella era l'epoca del dilettantismo, opposto al professionismo, e proprio in quel 1960 della seconda vittoria a Parigi si giocarono le Olimpiadi a Roma. C'è un aneddoto riguardo alla sua possibile partecipazione a un team di professionisti guidato da Jack Kramer. Ci racconta come andò?
Quall'anno ero piuttosto "fortino" e non c'erano giocatori europei nella troupe di Kramer. Mi corteggiò a lungo. Gran signore, devo dire. All'epoca era l'unico modo per fare soldi e anche un grande onore: quando ti chiamava Kramer voleva dire essere arrivato al top. Venne a Roma Tony Trabert, altro grandissimo campione e braccio destro di Kramer. Venne a colazione al Circolo Canottieri Roma e io gli firmai sulla carta del circolo, per fortuna non un vero contratto ma una specie di compromesso. Lui mi diede un assegno di 5 mila dollari. Avrei dovuto guadagnare 20 mila dollari giocando almeno 200 partite in un anno. Poi però calcolai che avrebbe significato giocare praticamente tutti i giorni e quindi fermai tutto, con l'intesa di riparlarne il giorno dopo. Nel pomeriggio andai a vedere l'inaugurazione delle Olimpiadi... non so... molta gente non ci credette allora e non ci crede ancora oggi: tra la sfilata e le bandiere, io mi commossi, presi l'assegno e lo strappai.
In nome del dilettantismo?
Non avrei potuto più giocare a Parigi, né a Wimbledon, né a Roma, né in Coppa Davis. Sareri stato una specie di intruso, perché i giocatori professionisti non potevano neanche allenarsi nei campi principali: dovevano farlo su campi periferici. Questo mi spaventò. Non so che cosa mi prese. Questo successe a settembre, quell'inverno andammo a giocare la finale della Coppa Davis in Australia. Di nuovo Kramer, che era li per una tournée, venne da me e mi disse: "Ti voglio far diventare ricco". Gli dissi che non me la sentivo e rifiutati un'altra volta. Lui fu molto corretto, perché forse poteva farmi causa. In seguito, ogni volta che lo incontravo, mi diceva: "Non sei voluto diventare ricco". Questa è la mia storia col professionismo.
Lei continuò da dilettante, tanto che, ancora oggi, ha il record di presenze in Coppa Davis: 167.
E' imbattibile quel record, anche perché sono cambiati i regolamenti: si giocava di più. Giocavamo quattro o cinque incontri solo in Europa: moltiplicato per tre partite a incontro fanno quindici partite all'anno, per quasi vent'anni. L'esordio lo feci a Madrid, ma avevo già preso confidenza con la squadra. Esordii a incontro già vinto, sul 3-0 per noi. Il vero esordio fu l'anno seguente in doppio. In coppia con Sirola vincemmo 34 incontri di doppio consecutivi. Panatta e Bertolucci hanno fatto un buon record ma non sono arrivati a tanto. I singolaristi erano Gardini e Merlo; io e Sirola eravamo subentrati a Cucelli e Del Bello. Poi Gardini smise per cinque anni e io subentrai al suo posto come singolarista.
Quali sfide ricorda come particolarmente difficili?
Le racconto un aneddoto "rosa". Nel '61 giocammo a Monaco di Baviera contro una fortissima Germania: Bungert, tre volte finalista di Wimbledon, e Kumke. Il primo giorno battei il mio avversario e Sirola perse dall'altro. Vincemmo il doppio 9 a 7 al quinto set. Sirola perse il terzo giorno. Il mio incontro fu sospeso sul 4-4 al quinto set. Eravamo stati finalisti l'anno prima. Durante la settimana eravamo in un albergo bellissimo dove io avevo conosciuto una stupenda ragazza tedesca, alla quale naturalmente avevo dato appuntamento per quella domenica sera (a incontro presumibilmente concluso, ndr.). I magliari di Monaco 8emigrati italiani, ndr.) avevano organizzato grandi feste per la squadra. Io cenai con la ragazza, e verso le 22.30 le diedi la buona notte. "Come buona notte?" mi disse. Ma io non andai neanche alle feste perché l'indomani mattina dovevo concludere l'incontro, che poi vinsi. L'avversario mi chiese se avessi dormito quella notte. Ovviamente si, avevo solo bevuto una bottiglia di vino con la ragazza. Grande rimorso. Aneddoti ce ne sono mille, perché era tutto completamente diverso da oggi. Da una parte i campioni di oggi sono fortunati, dall'altra si divertono poco.
Ci fu almeno un'occasione in cui però, in Davis, si divertì poco anche lei, nonostante fu la volta che la vinse, da capitano non giocatore. Gran parte della società italiana, stampa, partiti, intellettuali, pretendeva che la nazionale di Davis non andasse nel Cile governato dalla dittatura di Pinochet a giocare la finale. Se ne sono dette tante sulla fnale in Cile del '76, che ricordi ha?
Se ne sono dette anche troppe. Quest'anno sono quarant'anni. Ho imparato una frase: le sconfitte sono tutte orfane, le vittorie hanno un sacco di genitori. Il merito sportivo va solo ai giocatori, perché giocarono loro; ma non voglio dividere con NESSUNO il merito di averli portati là. Oggi son tutti bravi a dire che hanno fatto e detto questo e quello. Panatta addirittura parlava con Berlinguer... ma se stava in America? Bertolucci e Zugarelli stavano già a Buenos Aires. L'unico con cui partii fu Barazzutti, accompagnato dalle auto dei carabinieri. Io ricevetti due minacce di morte.
La vittoria cancellò tutto?
No. Tornammo di nascosto, pensi: con la Coppa Davis! Passammo tre giorni a Rio, ad aspettare. All'arrivo c'erano solo i familiari e il presidente della Federazione. Tornammo come se avessimo rubato quella coppa. Fu un episodio vergognoso.
A posteriori, calmate le acque, avete avuto qualche riconoscimento?
Per carità. Abbiamo avuto un orologio. Tornammo a dicembre e a giugno facemmo una festa al Circolo Canottieri Roma, dove venne anche Andreotti, all'epoca Presidente del Consiglio. A quell'epoca risale la famosa foto di me, nel letto, con la Coppa Davis.
In Cile come andò?
Fu bellissimo. Fummo trattati come pascià. Da una parte c'era l'organizzazione sportiva, dall'altra quella politica. Io non vidi mai un semaforo rosso: c'era sempre la polizia a scortarci. Tutti gentilissimi. Albergo stupendo. Sembrava di giocare in Italia. Andai a prendere Lea Pericoli all'aeroporto, lei mi ringraziò per la gentilezza ma io le dissi che mi divertiva viaggiare con i motociclisti (della Polizia, ndr.) davanti e dietro. Anni fa (nel 2011 la nazionale di Davis ha affrontato di nuovo il Cile, ndr.) siamo tornati a Santiago e ci hanno preso a pernacchie. A incontro finito ancora ci insultavano. Nel '76 fecero un tifo sfrenato per la loro squadra, giustamente, ma nel momento che vincemmo sembrò che avessero fatto il tifo per noi. A un certo momento si misero a gridare "vuelta! vuelta! vuelta!": il giro di campo che facevano fare soltanto alla squadra cilena.
Suo padre fu rappresentante per l'Italia della Lacoste. Che rapporti aveva, ed ha, con il mondo del merchandising?
Lo è stato per 22 anni. Mio padre faceva il costruttore: vedeva i giocatori italiani giocare anche con le magliette bucate; siccome conosceva Lacoste (ex tennista francese e all'epoca da poco fondatore della marca di abbigliamento sportivo, ndr.) andò a Parigi. Lacoste gli disse "Prenditela". Cominciò a venderla dentro casa. Poi "la Lacoste" cominciò a piacere. I negozianti venivano sotto casa per farsi dare le magliette, perché erano quelle che tutti volevano. Chiesi a mio padre di mettere 100 lire in più per me ma lui disse: "No, la maglietta costa 2800 lire e non si può". Nell'anno migliore riuscì a vendere 280 mila magliette. Non sapeva fare il commerciante. Pensi che portò in Italia Puma; Spalding; GreenSet, i campi sintetici. La Lacoste comunque fu la cosa più importante, ma non la seppe gestire bene.
Oltre alle vittorie lei ha avuto anche riconoscimenti sportivi dopo la fine della carriera. L'ultimo pochi giorni fa: L'Assemblea dei Comitati Olimpici Europei le ha conferito l'European Olympic Laurel (Alloro Olimpico Europeo) in una cerimonia di fine ottobre.
Se fossi stato un calciatore sarebbe stato in prima pagina su tutti i giornali. E' la prima volta che un italiano viene premiato dai comitati olimpici europei. Non so neanche se l'hanno scritto.
Lei però ha il raro onore di avere, mentre è ancora in vita, uno stadio intitolato a suo nome: il centrale del tennis al Foro Italico. Che emozione prova quando ci entra?
Ogni tanto ci penso. Non è questione di tennis: non c'è una strada, una fontana, un palazzo, che porti il nome di uno ancora vivo. Anche questo però dovrebbe rendere fiera l'Italia, ma non frega niente a nessuno. Se fosse stato fatto per un calciatore... ma non ce l'ho con i calciatori. Prima parlavamo del fatto che avrei potuto diventare francese... in questo caso mi avrebbero trattato meglio.
Spesso mi chiedono se mi fa rabbia che oggi gli sportivi guadagnino tanti soldi. Io rispondo: "E allora? Anche se mi rodesse il fegato non cambierebbe niente". Qualche giorno fa, per scherzare con gli amici, ho indossato le mie decorazioni, come un generale: sono stato il più giovane commendatore d'Italia; la medaglia d'oro al valore sportivo; la medaglia di bronzo presa a Wimbledon del valore di 25 sterline (quest'anno 750 mila euro); le due coppette alte 15 cm prese a Parigi: la gente non crede che siano i trofei per la vittoria del Roland Garros. il premio in denaro fu 150 euro, quest'anno 2 milioni e mezzo. Benefici: zero, a parte la tessera del Coni per vedere le manifestazioni sportive.
Le faccio una domanda cattiva: farebbe a cambio con tutto il pacchetto? Soldi, fama, celebrità, le coppe più grandi; in cambio di quell'epoca, quella vita, quei rapporti personali?
E' una buona domanda. Dovrei dire di no. Ma poi leggo che hanno stimato la fortuna del signor Federer in 750 milioni di euro, a 33 anni. Con 750 milioni a 87 anni ci fai la birra; ma a 33 la cosa è un po' diversa. Qualcuno si chiede anche che farà quando smetterà. Sarebbe stupido da parte mia dire che non farei a cambio. Quando noi giocavamo tornei minori, ma comunque internazionali, con giocatori forti, come Viareggio ad esempio, io chiudevo la Capannina alle 5 del mattino, perché il giorno dopo la differenza tra primo e secondo premio era tra 25 e 15 mila lire. Quindi mi divertivo come un pazzo. Mi dicono: se ti fossi allenato di più? Pensa quanto mi sarei divertito di meno. Oggi vale veramente la pena di sacrificarsi al massimo, perché quando giochi una finale e la differenza tra vincere e perdere è un milione e mezzo euro, beh, stai attento, ne vale la pena. Prima era tutto da ridere, era un divertimento. Ecco perché ridevamo, e uscivo la sera con l'avversario. Oggi Nadal esce col suo staff e se va a cena con Federer sono venti persone. Altro mondo. Difficile paragonare.
Quando mi chiedono come avrei giocato oggi rispondo che non lo so. Fangio guidava a 200 all'ora e vinceva tutto; oggi se non guidi a 400 all'ora non sali neanche in macchina. Oggi tirano queste bombarde, molto grazie alla racchetta, ma sicuramente molto grazie anche alla preparazione atletica dei giocatori. Quello che il ragazzino vede sparare a mille equivale al cento di tanti anni fa. Questi saranno bravi ma prima, se non sapevi giocare a tennis, non potevi giocare a tennis: la palla la dovevi prendere in mezzo alla racchetta altrimenti niente. Sa perché prima era proibito strillare in campo? Perché dal rumore del colpo che tirava l'avversario io capivo che colpo era, se era piatto o tagliato o liftato. Oggi come si fa? Se strillano quanto la Sharapova: sembra un parto ogni volta.
Qual era il suo sogno quando giocava? E qual è ora?
Vincere Wimbledon, e avrei potuto farlo. Non lo dico per fare il gradasso: persi 6-4 al quinto da Laver (semifinale 1960, ndr.). Avevo giocato la prima semifinale. Quasi sicuramente avrei vinto con Fraser in finale. Lui venne da me e mi disse: "Non ti arrabbiare ma so di aver vinto Wimbledon perché con Laver non perdo". Vinse effettivamente Fraser, che batté ancora Laver anche in America subito dopo. Poi andammo in Australia per giocare la finale di Coppa Davis e io persi da Laver e battei Fraser.
In Australia all'epoca si giocava sull'erba?
Si. Anche quello fu un grande vantaggio per loro e un handicap per me. Il sogno nel cassetto di oggi? Ho tutti i premi possibili e immaginabili, ma vorrei diventare socio di Wimbledon, e nessuno mi da una mano. Dicono che solo chi ha vinto il torneo può essere socio, e non è vero. Sono due anni che non ci vado perché tutti i miei amici vincitori di Wimbledon rimasti vanno in tribuna nord; io resto in tribuna sud, da solo.