teatro

Stefano Tilli

Onorare un dono

Di Valeria Barbarossa

L’ex velocista, ancora oggi detentore del record italiano dei 200 metri piani indoor, analizza il panorama dell’atletica che attualmente definisce “calma piatta”. La speranza è Gianmarco Tamberi ma è troppo poco. Un “rivale” di nome calcio e una certa disabitudine alla fatica probabilmente sono la causa dello scarso coinvolgimento da parte dei giovani verso questa disciplina.

Come ti sei avvicinato all’atletica?
Ero un appassionato di atletica sin da giovane. Ricordo le volate di Pietro Mennea a Mosca e vederlo vincere l’oro in quel modo, con quella rimonta fu motivo da parte mia di grande ammirazione. Ricordo che ero ad Ischia e all’ora di pranzo con la vespa tornavo a casa per vedere Pietro. Avevo diciotto anni. Un giorno, un mio compagno di liceo andava ad allenarsi in pista e decisi di andare con lui. Giocavo a calcio ma mi rendevo conto che a quell’età se non sei arrivato in una squadra importante ormai è tardi. Già con il calcio però mi resi conto di avere una velocità diversa rispetto agli altri: un’ala destra imprendibile!
I tuoi genitori ti hanno sempre appoggiato?
Sì. Erano dell’idea che un’attività sportiva comunque andava fatta. Loro non sono stati grandi sportivi però papà è un grande appassionato di sport.
Da giovane ci sono stati momenti in cui avresti voluto mollare?
Avendo iniziato tardi, la mia adolescenza me la sono goduta. Nei momenti più pressanti in cui mi allenavo due volte al giorno, tutti i giorni, l’ipotesi di lasciare è arrivata ma per fortuna, contemporaneamente, sono arrivati anche i successi. A quel punto non potevo non onorare il dono che avevo ricevuto. Veloci si nasce, quindi bisogna onorare ciò che hai per grazia ricevuta.
Come ti allenavi?
Seguivo pedissequamente ciò che mi veniva insegnato. I miei allenatori non curavano la parte dell’alimentazione, piuttosto pesi per le gambe. Nella seconda fase della mia vita ho iniziato a fare più di testa mia. A vent’anni una pizza e una birra non ti fanno niente ma è chiaro che andando avanti con l’età devi stare più attento. Questa scarsa attenzione alla dieta ha portato la mia generazione, che considero di fenomeni, a frequentare più le astanterie degli ospedali che le piste di atletica. Non integrare una dieta corretta ad un allenamento di cinque ore al giorno comporta conseguenze a livello muscolare e non solo.
Come ti concentravi?
Sono sempre stato un competitivo. La sola idea di gareggiare mi faceva tirare fuori il meglio di me. Mentalmente ero molto aggressivo e questo da una parte era un bene, dall’altra non sempre!
Perché?
Perché ogni tanto ci si fa prendere dalla voglia di strafare! Quali erano i tuoi punti deboli?
Il mio rammarico è solo per questa scarsa attenzione nei riguardi dell’alimentazione. Gli allenamenti a volte troppo pesanti non erano sostenuti da una struttura solida che poi inevitabilmente ogni tanto ha ceduto: microfratture, stiramenti, lesioni...
C’è molta differenza con gli allenamenti e l’attenzione di oggi?
Be’ sì. Dieta a parte, oggi esistono apparecchiature e strumenti all’avanguardia. Le piste sono molto più performanti ed elastiche, le scarpe non disperdono la spinta: noi avevamo delle pantofole chiodate! Poi Carlo Vittori (allenatore di Pietro Mennea n.d.r.), aveva adattato a tutti noi un allenamento fatto apposta per Pietro che sopportava bene i carichi di lavoro così pesanti. A noi questo invece ci ha danneggiato perché avevamo bisogno di un lavoro più snello, più asciutto e agile.
Qualche gara che rimpiangi?
Con Pietro siamo arrivati quarti a Los Angeles alla staffetta 4x100. Davanti c’era Ben Johnson con la sua squadra di dopati… quel bronzo non ce lo hanno mai ridato. Poi altri atleti squalificati ma dopo che ci hanno battuto... be’ la sensazione di tagliare il traguardo non te la ridà più nessuno. Ne ho diversi di rimpianti: in assoluto la convinzione di non aver sfruttato appieno il mio potenziale.
Com’è stato passare da atleta ad allenatore?
Quando ho iniziato ad allenare Marlene Ottey ero ancora in attività. In quel momento ho fatto le mie migliori esperienze perché ho applicato la metodologia che avevo imparato e l’ho adattata su di lei studiando carichi di lavoro più leggeri. Con lei ho ottenuto grandissimi risultati: basti pensare che ha vinto due volte i mondiali, due record del mondo, in due anni in oltre cento gare consecutive non ha mai perso.
A livello psicologico come gestivate la preparazione visto che, oltretutto, lei è stata la tua compagna per cinque anni.
Molto impegnativo perché quando si è trasferita in Italia non guidava, non parlava la nostra lingua quindi ero il suo unico punto di riferimento: ero lo psicologo, l’accompagnatore, l’allenatore e quello forse a me ha tolto qualcosa ma le soddisfazioni sono state davvero tante quindi nessun rimpianto.
Come vedi il panorama attuale dell’atletica italiana?
Calma piatta. Sono anni che a livello mondiale non emergiamo. Abbiamo questa speranza che è Gianmarco Tamberi.
Perché questo calo?
Perché abbiamo un grande rivale di nome Calcio. Viviamo in un paese in cui ad un bambino chiedono prima il nome e poi che squadra tifa. Per forza i bambini si appassionano al calcio e tutti giocano a pallone. E poi ho notato una certa desuetudine alla fatica: tutto ciò che non fornisce un risultato immediato viene scartato. Nei paesi caraibici e africani l’unico modo per emergere da una società di povertà e degrado è buttarsi nello sport. Noi abbiamo i ragazzi con tante altre distrazioni: video giochi, social etc.
Che consigli daresti ai giovani che iniziano questo sport?
Di considerarla una disciplina che forma non solo il fisico ma il carattere. Ti insegna a combattere da solo, perché non c’è nessuno a cui puoi passare la palla nei momenti di difficoltà. Puoi contare solo sui tuoi mezzi. E questo vale non solo per l’atletica ma per la vita in generale.