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Giovanni De Carolis

“Se superi i momenti difficili, non hai più paura di diventare ciò che vuoi”

Di Valeria Barbarossa

Il 9 gennaio di quest’anno, il pugile italiano è diventato campione del mondo WBA dei pesi supermedi. “Grazie” ad un infortunio sui campi da calcio, ha scoperto il ring… è proprio il caso di dire che non tutti i mali vengono per nuocere!

Giovanni com’è nata la passione per il pugilato?
Per caso. Da giovane giocavo a pallone, in un contrasto mi feci male e decisi che dovevo rafforzarmi a livello muscolare. Mi segnai in palestra e rimasi impressionato dall’agilità di un pugile che si stava allenando sul ring. Fino ad allora, avevo sempre pensato che il pugilato fosse solo forza e muscoli ma guardando la velocità di quell’atleta mi dovetti ricredere. Al pallone, univo il pugilato. Poi a 23 anni sono diventato professionista lasciando definitivamente il calcio. Lavoravo come cameriere prima e come distributore di materiali edili poi. Lavoravo dalle 7 del mattino alle 16: questo mi consentiva, finito il turno, di andare in palestra. Feci il mio primo incontro importante in Ucraina e fu davvero emozionante. In quel periodo poi, ho conosciuto la donna che di lì a poco sarebbe diventata mia moglie. Abbiamo costruito molto insieme; oltre a darmi due figli, mi ha sempre sostenuto e seguito nelle attività che ci siamo creati.
Cioè?
Anni fa per motivi economici ci siamo trasferiti a Monterosi, fuori Roma Nord, perché gli affitti erano più bassi. Ho aperto una piccola palestra che poi, visti i risultati positivi, abbiamo ingrandito. Sono contento perché va molto bene. Ho creato un’alternativa per me e la mia famiglia per quando smetterò di combattere.
Chi è stato il tuo primo allenatore?
Frontoloni. Era bravo, mi faceva allenare con la Nazionale dell’Esercito ma non mi trovavo con lui. Chi ha creduto veramente in me è stato Italo Mattioli. Ha saputo prendermi con altri modi. Con lui vinsi il mio primo match con un KO e da lì è iniziata la mia scalata.
Come si diventa campioni del mondo? Come ti sei preparato?
Credo che ognuno di noi abbia una propria via. Da un punto di vista mentale, hai intorno tante persone che tentano di screditarti, quindi ci vuole determinazione, voglia di mettersi in gioco e fiducia in se stessi. Se superi i momenti difficili non hai più paura di diventare ciò che vuoi. Sotto l’aspetto atletico devi prepararti in modo completo e poi, aspetto da non trascurare, ci vuole intelligenza. Ogni avversario va studiato e soprattutto mai sottovalutato.
Da pugile, come vedi questi nuovi sport da combattimento come l’MMA?
La vera differenza è la storia. Il pugilato ha un’evoluzione lunga mentre l’MMA è una disciplina giovane. Concettualmente è più accattivante perché, a differenza della boxe, si usano anche le gambe rendendolo un combattimento a 360°. A livello di preparazione, un pugile impiega dai sei mesi ad un anno per arrivare a combattere. In queste nuove discipline invece, spesso si costruisce un atleta in tempi troppo brevi pur di suscitare curiosità nella gente e fare soldi. Sono comunque sport diversi, non mi sento di giudicare né di paragonarli. Indubbiamente l’MMA è spettacolare… sarebbe interessante, a fine carriera, un incontro tra un ex pugile e un ex lottatore di MMA… chissà come finirebbe!
Chi è stato il tuo idolo?
Muhammad Ali. Perché è stato un campione dentro e fuori dal ring. Ho letto la sua biografia e lo reputo un uomo dal quale prendere esempio. Considerava il pugilato un mezzo per abbattere le barriere razziali che negli anni ’60 e ’70 erano ancora molto radicate negli Stati Uniti. Si dice che, tornato campione dalle Olimpiadi di Roma del 1960, abbia gettato la medaglia d’oro in un fiume perché in un bar si rifiutarono di dargli da bere. Un estremo gesto di protesta verso il suo paese. Come il suo rifiuto di partire per combattere in Vietnam (famosa la sua frase “Non ho niente contro i vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro”, ndr), che gli costò il ritiro della licenza da parte delle commissioni pugilistiche statunitensi.
Qual è stato l’incontro più difficile?
In Germania contro Arthur Abraham: un vero picchiatore armeno. Per l’incontro, arrivarono 10 mila persone per lui e cinque per me… ambiente non facile! Persi ai punti ma grazie a quel match fui rivalutato. Il mio biglietto da visita per la Germania.
La vittoria più bella?
Quest’ultima del 9 gennaio in cui sono diventato campione del mondo battendo Vincent Feigenbutz, un pugile dal pugno davvero pesante!
Hai due figli, un maschio e una femmina. Da padre vorresti che tuo figlio diventasse un pugile?
No, ma se volesse intraprendere la carriera, certamente potrei dargli una mano, anche se non credo nella combinazione padre-allenatore, figlio. Qualunque cosa vorrà fare, per me comunque va bene.
Com’è cambiato il mondo della boxe rispetto agli ’80 e ’90? Ti faccio questa domanda perché tempo fa ho intervistato Nino La Rocca che mi ha raccontato di un mondo spregiudicato e terribilmente cinico dietro a questo sport.
Dal punto di vista economico, noi siamo un prodotto da vendere. Lo sai, hai un contratto. Sai anche che sentimenti non ce ne sono, quindi non bisogna illudersi che intorno a te ci siano amici perché c’è un giro di soldi importante e perché quando perdi spariscono tutti. Forse ora è più facile capire come vanno le cose ed è importante che un pugile impari a gestirsi in autonomia.