La Partita – Intervista al regista Francesco Carnesecchi

Di Marta Angelucci

Esordio alla regia per il regista romano Francesco Carnesecchi, che sceglie la difficile narrativa calcistica col suo film "La Partita", film corale dove non è però la squadra ad essere al centro della narrazione, ma le figure legate al campetto sportivo del Quarticciolo: Claudio Bulla (Francesco Pannofino), un burbero allenatore che non ha mai vinto una coppa; Italo (Alberto di Stasio), indebitato proprietario del campo; Leo (Daniele Mariani), tossico figlio di Italo e Antonio, protagonista nascosto della vicenda. La Partita nella sua coralità è una parabola di formazione in cui si scopre il prezzo di essere adulti e di avere responsabilità e debolezze, lontane dal semplice grande sogno rappresentato da un pallone da calcio. La regia e il montaggio sono incalzanti, supportati da una musica coinvolgente e dalle scene sul campo che sembrano far volare lo spettatore insieme ai giocatori. Gli attori tutti splendidamente in parte, fino all'ultima delle comparse, capaci di creare un microcosmo perfettamente credibile della periferia romana. La Partita è un film sul calcio dove il gioco è una metafora e che piace anche a chi non tifa e non ha mai tifato.

Di che parla il film?

Il film parla di scelte. Scelte vincolate in questo caso a una partita di calcio; anche il linguaggio cinematografico si accosta alla partita, infatti film e gioco hanno la stessa durata. Parla di tre personaggi chiusi all’angolo che devono fare le scelte più importanti della loro vita in un tempo limitatissimo. Parla delle scelte che ti segnano per sempre.

Una partita si gioca per vincere o perdere. La vita, invece?

La vita si gioca per vincere, per ognuno la vittoria è diversa. Per uno la serenità mentale, per un altro i soldi, per un altro ancora la fama. Qui abbiamo tre fasce di età; il presidente, l’allenatore e il giocatore. Sono in momenti di vita fortemente diversi, per il giocatore è la perdita dell’innocenza. Bella domanda… La partita è una metafora della vita, alla fine.

Perché al Quarticciolo? Nasce da una tua esperienza reale?

Sì, conosco quel mondo, ci sono cresciuto. Ho giocato a pallone da quando avevo otto anni fino al liceo. La terra, i genitori avvelenati sugli spalti, i personaggi grotteschi che ruotano intorno al calcio. Parlo di una periferia romana, ma che poi è come qualunque periferia italiana. Il discorso delle scommesse non l’ho vissuto in prima persona, ma c’era qualcuno che scommetteva, erano pulite però. È un mash up fra un’esperienza vera e il mondo oscuro del calcio clandestino, presente anche nel calcio giovanile. Il Quarticciolo è stata casuale come scelta. Io giocavo a Montesacro alla Spes. Esiste ancora. Tra l’altro il proprietario è un ex giocatore della Roma, Aquilani. Non si ricorderà mai di me, anche se abbiamo fatto la scuola calcio insieme. Era un fenomeno.

Nel film si parla molto di campi in terra e di campi sintetici. È un simbolo?

Sì, il vecchio che muore e il nuovo che avanza. C’è un conflitto fra generazioni, fra padre e figlio: il primo è legato alla tradizioni, ai ragazzini che faticano e si fanno male, ai dislivelli coi rimbalzi che cambiano. Il figlio pensa a un campo di ultima generazione, più pulito, più costoso, dove nessuno si fa male e che vede come un’azienda più che come una squadra. Uno è un discorso di cuore, l’altro è imprenditoriale: ci sono tanti campi e si affittano all’ora, stop. Non c’è più LA squadra.

C’è un Frank nel film. Sei tu?

Sì, mi piace inserirmi in ruoli molto marginali. Non sono mai stato un campione, quindi nel film sto sempre in panchina e non influenzo la storia. Quasi tutti i personaggi però sono ispirati a miei amici reali. Anche il protagonista, è ispirato al nostro campioncino, quello dello Sporting Roma (da cui ho preso il nome della squadra del film). Li ho usati però più per una mia facilità di scrittura che per la storia in sé, non ci sono successe quelle cose.

Quando esce il film?

Il 27 febbraio al cinema, attraverso la Zenit Distribution.

Riguardo la produzione del film?

È un film indipendentissimo, nato dall’unione di più produzioni (Freak Factory, Duel Produzioni, Wrong Way Pictures, Pyramid Factory, Rotornoise Soundtrack) che hanno contribuito a realizzare il progetto. È stato possibile farlo grazie alla venuta incontro di produzione, cast, troupe e ovviamente anche dalla sceneggiatura. Ho cercato di costruire il tutto in due, tre location al massimo.

Riguardo il cast del film, invece?

Francesco Pannofino ha sposato il progetto fin dal cortometraggio che lo ha anticipato. Tra l’altro il ruolo gli ricordava il suo vecchio allenatore che era esattamente così, burbero e scontroso. Lui gioca ancora, mi hanno anche detto che è un buon terzino. Sul resto del cast sono stato fortunato, ho avuto tutte le prime scelte che volevo. Il più tosto da prendere è stato Giorgio Colangeli, nonostante il rapporto ottimo che abbiamo adesso. Sul corto non ci fu, sul film invece sono riuscito fortunatamente.

E riguardo la squadra che appare nel film?

Abbiamo usato più squadre: la squadra del Quarticciolo ed una di Fiumicino. Ho voluto una squadra vera, perché sul corto avevo preso tutti attori e le riprese erano lente e macchinose. Per i piedi ho dovuto usare delle controfigure. Ho imparato la lezione e ho preso una squadra vera. Dal cortometraggio ho richiamato gli unici che erano anche capaci a giocare a pallone. Anche Gabriele Fiore (nda: Antonio, protagonista) è bravo, gioca a calcetto. All’inizio ha avuto un po’ di difficoltà, giocava sul sintetico: passare alla terra e al calcio è stato tosto, ha dovuto prendere le misure.