“Il più difficile Sei Nazioni che io ricordi. E qualcuno l’ho giocato”.

Sergio Parisse, più che capitano della Nazionale, è un monumento ambulante del rugby azzurro. 134 caps con l’Italia, nessuno più presente di lui nella più che centenaria storia del Torneo.


Il Guinness Sei Nazioni che inizia il 2 febbraio a Edinburgo contro la Scozia, per poi spostarsi all’Olimpico di Roma il 9 contro il Galles, il 24 contro l’Irlanda ed il 16 marzo per il derby latino contro la Francia, per il numero otto aquilano sarà il dodicesimo al timone della Nazionale.
Ne ha fatta, di strada, il diciottenne lanciato spavaldamente in campo da John Kirwan contro gli All Blacks nel giugno del 2002 ad Hamilton; e strada ne ha fatta il rugby italiano, legittimatosi negli anni nel Torneo grazie ad alcuni successi indimenticabili. Parisse c’era sempre.

Nei due trionfi di Murrayfield contro gli scozzesi, nelle due vittorie di Roma contro la Francia, nello storico successo sull’Irlanda all’Olimpico, in quello del Galles datato 2007. Manca solo uno scalpo, quello dell’Inghilterra, e il tempo stringe perché, all’alba dei trentasei anni, il tempo inizia a richiedere il pedaggio. “Il mio ultimo Sei Nazioni? Non ho ancora deciso, alla mia età bisogna ascoltare il corpo, capirlo, assecondarlo. Sì, potrebbe anche essere” taglia corto il numero otto dell’Italia e dello Stade Francais, con cui Parisse si è laureato due volte Campione di Francia.

Di certo, come sia il capitano degli Azzurri che il CT irlandese Conor O’Shea tengono a rimarcare, il livello del Six Nations non è mai stato così alto con l’Irlanda seconda nel ranking ma unanimemente considerata la miglior squadra al mondo per talenti e impianto di gioco, il Galles subito dietro, l’Inghilterra in quarta posizione, la Scozia in settima, la Francia in nona.
Mescolate tutto con l’ingrediente segreto – il 2019 è anche l’anno del Mondiale, sempre un fattore in grado di aggiungere incertezza – ed avrete un Sei Nazioni da far tremare i polsi a chiunque.
“Se giocheremo come contro l’Australia in novembre – spiega O’Shea, al suo terzo Torneo sulla panchina italiana – avremo sempre una possibilità”. Famoso per il suo ottimismo, per una capacità comunicativa fuori dal comune e per essere un instancabile lavoratore, O’Shea nei suoi due anni e mezzo in Italia ha rivoluzionato il sistema, è riuscito dove altri avevano fallito, creando un sistema efficace attorno alla maglia azzurra e allineando il lavoro delle due franchigie professionistiche, ha portato in Italia alcune grandi professionalità sportive da tutto il mondo, dall’allenatore dei trequarti Mike Catt al guru della preparazione Pete Atkinson, strappato al cricket inglese.

Di più: ha riportato l’ottimismo in un gruppo che sembrava averlo smarrito, ha contagiato il movimento con la sua positività, ha rinnovato e approfondito la rosa degli atleti. Non ha mai smesso di ripetere che per costruire i successi ci vuole tempo, che l’Irlanda di oggi è stata costruita sulle sconfitte – sonore, anche con l’Italia – vissute dalla sua generazione. I frutti del suo lavoro si sono visti contro il Sudafrica nel 2016, una dele vittorie simbolo del rugby azzurro del nuovo Millennio, nelle vittorie su Georgia e Fiji, in un paio di sfortunate prestazioni dove gli episodi, le scelte dei singoli – e qualche svista arbitrale – hanno negato all’Italia vittorie potenzialmente iconiche.

Manca il primo acuto nel 6 Nazioni per tenere vivo un progetto in cui tutti, dai vertici del movimento sino alla base, sino al più spelacchiato campo di provincia, vogliono continuare a credere. Non sarà facile, ma potrebbe essere l’anno buono.