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FARE BRAND JOURNALISM….BENVENUTI NELLA RIVOLUZIONE COPERNICANA DELL’INFORMAZIONE 2.0

di Marco Oddino

Un vademecum pratico per l'applicazione efficace delle tecniche e degli strumenti dell'informazione digitale al marketing e alla comunicazione d'impresa, che propone leve strategiche e pratiche ai nuovi professionisti dell'informazione, suggerendo ai manager approcci e percorsi organizzativi che li aiutino a strutturare la propria azienda come una vera media company.
Grazie al Web, la comunicazione d'impresa si arricchisce di nuovi strumenti. 
Imprese e organizzazioni no profit possono comunicare direttamente con il proprio pubblico diventando editori e fare informazione. 
Un cambiamento epocale che richiede lo sviluppo di nuove competenze, radicate negli ambiti più tradizionali del giornalismo, del marketing e della comunicazione d'impresa. 
A queste se ne aggiungono altre, più specifiche della comunicazione digitale, nate in parte dalla fusione di tutti questi ambiti e quindi inedite. 
Professione Brand Reporter è un manuale - edito da Hoepli - che guida in questo nuovo ambito professionale del brand journalism, da un punto di vista teorico e strategico. 

  Abbiamo incontrato gli autori di questa bella pubblicazione Carlo Fornaro, top manager della comunicazione e delle relazioni esterne per aziende del calibro di Vodafone, RCS, Luxottica e Telecom, ora a capo di Scomunicare, lo Studio di Consulenza Strategica sulla Comunicazione da lui fondato 5 anni fa, insieme a Diomira Cennamo, giornalista, esperta di marketing e semiotica, di filosofia  e di comunicazione, Digital Strategist di Scomunicare. Il libro è decisamente originale, nonché attuale, non può certo mancare nello “scaffale” di professionisti e manager che lavorano nell’era del digital marketing e della communicazione 2.0.
Ecco cosa hanno raccontato a Sport Club.
Carlo, cominciamo con te. Dopo aver ricoperto per tanti anni ruoli dirigenziali in aziende tra le più importanti nello scenario industriale italiano,  come nasce l’idea di scrivere oggi un libro da libero professionista che ha deciso di mettersi in proprio con una affermata agenzia di comunicazione?
In azienda il tempo è scandito da rituali e liturgie collettive, oltre che dal lavoro: meeting, comitati, colloqui, ma anche chiacchiere para professionali e laterali, fondamentali per fare un buon lavoro all’interno di organizzazioni complesse.  Il tempo che quei rituali occupano non lascia però quasi spazio ad approfondimenti e analisi, letture e ricerche. Tutte cose che, iniziando la mia nuova vita da consulente, mi hanno permesso di riflettere in maniera attenta sulle prospettive della mia professione al tempo della disintermediazione portata dalla rivoluzione digitale.
E con la mia collega e amica Diomira, che oltre ad essere giornalista è una rigorosa studiosa della comunicazione, ci siamo trovati a pianificare un lavoro sulla professione del comunicatore nel tempo digitale. Che naturalmente è profondamente mutata rispetto al passato.
Diomira, con l’utilizzo della comunicazione digitale tutti oggi possono fare informazione. Se dovesse farci una analisi SWOT su questa “leva” cosa verrebbe fuori secondo lei?
Tutto questo è profondamente vero, al punto che nel libro a un certo punto, anche un po’ provocatoriamente, ci chiediamo: “Siamo tutti giornalisti?”. In realtà, se è vero che tutti possiamo essere produttori e conduttori di informazioni, è solo un lavoro professionale di selezione e validazione dei fatti che sancisce la bontà e la qualità di questa informazione. Tutto questo oggi non è più prerogativa esclusiva dei giornalisti col tesserino. D’altra parte, il giornalista oggi deve farsi carico di un lavoro molto più rigoroso e ricco di sfide, in quanto il livello quantitativo e di velocità dei messaggi diffusi all’interno di quei nuovi mass media che sono le piattaforme di social networking si è elevato in misura straordinaria, a fronte di redazioni giornalistiche che non hanno più le risorse che un tempo permettevano a esse di fare inchieste e scoop. Insomma, siamo a uno snodo cruciale per il futuro dell’informazione.
  Carlo, brand journalist o responsabile dell’ufficio stampa di una azienda….ci sono delle differenze o nel titolo del libro intendevate proprio questo ma in chiave futuristica?
Non solo il responsabile dell’ufficio stampa, che è quello che in azienda parla con i media tradizionali, può essere assimilato  alla figura del Brand Reporter. Tutti gli addetti alla comunicazione, ognuno per il o i canali che utilizza nel suo lavoro, possono essere dei veri e propri giornalisti della marca. Il digitale consente di parlare direttamente con i nostri consumatori, utenti, spettatori, clienti, a seconda del tipo di organizzazione, e quindi chi fa comunicazione si avvicina molto più che in passato alla figura del Reporter. Il nostro uomo dell’ufficio stampa, laddove prima parlava unicamente a chi poi avrebbe dovuto trasmettere i messaggi al pubblico finale, il target, ora ci parla direttamente, e ci dialoga, scambia opinioni e pareri, a volte proteste e scuse, ma ci parla direttamente. questa è la grande discontinuità creata dal digitale che consente al professionista di rinnovarsi adottando tecniche e approcci giornalistici anche nel rapporto con il giornalista, pensando come lui, producendo materiale di tipo giornalistico pensando a una diffusione sui canali digitali ecc.
  Diomira, le aziende “moderne” non si limitano ormai a implementare solo le proprie strategie puntando sui contenuti di marketing, bensì con l’avvento e l’utilizzo sempre più costante dei social network, tentano di raccontare storie dandogli un taglio simile al giornalista classico, ma spesso caricando troppo il contenuto rischiano di lasciare perplesso l’utente finale. Che ne pensa e qual è la sua visione?
Il problema del sensazionalismo è tipico del cattivo giornalismo. Si veda il fenomeno del clickbait o “acchiappaclick” per cui si pompano i titoli per spingere l'utente a cliccare sul titolo stesso e aprire la pagina dell’articolo, ma questo con il solo scopo di fargli visionare un’inserzione e non di fargli leggere l’articolo. In questo aspetto il giornalismo ha tradito profondamente se stesso. Se consideriamo anche i contenuti diffusi attraverso i social media come dei contenuti potenzialmente giornalistici, il discorso non cambia. Il punto è che è l’utente, con le sue esigenze di informazione e di conoscenza, che deve essere messo al centro, non noi come editori, che rischiamo così di ridurci a delle belle scatole, ma vuote. Il problema principale che riscontriamo nelle aziende oggi è una forte difficoltà di autoanalisi (quando non una vera e propria resistenza), che è ciò che può determinare una vera notiziabilità (ossia una selezione valida di notizie che riguardano il brand effettuata secondo criteri giornalistici). Senza tale fase di analisi le aziende rischiano di non sapere cosa raccontare e come farlo. Ovviamente questo non è facile e presuppone una forte competenza non solo nell’ambito del branding ma anche una conoscenza e di una valutazione giornalistica di ciò che succede là fuori. Nessuna organizzazione è una monade, ma è oggi strettamente interconnessa con il mondo esterno, grazie al fitto intrico di connessioni tracciate dalla Rete.
  Carlo, nel libro si parla di comunicazione aziendale e professione giornalistica. Ci spiega meglio le differenze?
In passato, prima del digitale, la differenza stava proprio nella possibilità di parlare direttamente con il nostro pubblico, con il lettore, il telespettatore, il radioascoltatore, tipica prerogativa del giornalista di professione. Ora questa figura, di cui ci sarebbe tanto bisogno, considerando che i social hanno fatto esplodere il bisogno di informazione di qualità, non ha trovato un modo di sostenere un conto economico tale da consentirgli di rimanere indipendente e di poter operare con il solo obiettivo della verità. Etica e verità. Oggi le differenze tendono ad annullarsi, poiché come dicevamo in precedenza il comunicatore aziendale può disintermediare il giornale tradizionale e parlare direttamente con il suo pubblico. Per entrambi i mestieri però, affinché siano credibili e accettati, etica e verità devono essere il punto di riferimento costante del lavoro, altrimenti, come ogni tanto avviene, stiamo solo giocando a qualche altro gioco.
  Diomira, di brand journalist si parlava già nell’ottocento con i primi “house organ” di aziende americane che avevano colto da subito l’opportunità di comunicare costantemente con i propri clienti. Ma allora oggi quanto è davvero importante che le aziende si trasformino in vere e proprie media agency?
Il Web lo ha reso non importante, ma necessario. Questo perché le accelerazioni determinate dalla trasmissione in tempo reale delle informazioni nell’ecosistema digitale impongono un’accelerazione anche nei ritmi di produzione delle informazioni da parte dei brand. Pensiamo, per esempio, ai casi di crisi reputazionale. In questo resta oggi probabilmente insuperato l’esempio della risposta di Eni a Report con una videodiretta su Facebook trasmessa in contemporanea alla prima serata di Rai3 da una sala riunioni dell'azienda. Qui siamo andati anche oltre il tempo reale, con la diffusione di un messaggio antagonista che mirava probabilmente anche a ‘strappare’ audience, ma soprattutto a colpire i nodi più influenti della Rete. Questo non puoi farlo se non hai la struttura agile ed efficiente della media company.
  Diomira, quali sono le cose che assolutamente deve conoscere un brand journalist?
Effettivamente tante, al netto di possibili specializzazioni sul campo che sono determinate dal livello di complessità strutturale dell’azienda. Il professionista che vuole inserirsi in una struttura giornalistica aziendale deve comunque avere un background di conoscenze e competenze molto ampio, che spaziano dal marketing strategico all’editoria digitale (in termini sia di progettazione di contenitori che di redazione di contenuti) alle teorie e alle tecniche del linguaggio giornalistico (con la deontologia che occupa qui un ruolo centrale) alla conoscenza dei social media e delle tecniche e degli strumenti di monitoraggio della Rete. Tanta roba, per cui servono senza alcun dubbio dei percorsi formativi pensati ad hoc.
  Ed infine, per entrambi, è più importante enfatizzare in una azienda la propria storia o la propria cultura?
Carlo - La storia e la cultura di impresa sono parti dello stesso ambito. La percezione e la reputazione che l’impresa ha presso i suoi stakeholder derivano da entrambe queste dimensioni. Una storia aziendale come quella di Olivetti, Ferrero, Luxottica, racconta molto di più di qualsiasi campagna pubblicitaria, ed è perfettamente sovrapponibile al sistema valoriale che quella impresa produce. Altre storie come quelle di alcune banche, di alcune compagnie farmaceutiche, di trasporto o di telecomunicazioni, non consentono di spacciare per buoni approcci culturali da buon samaritano, con dichiarazioni di responsabilità sociale un tanto al chilo. Dopo l’arresto di Tanzi, il patron della Parmalat, l’intera tiratura del Bilancio Sociale, come si chiamava allora, venne mandata al macero...
Diomira - Storia e cultura sono strettamente intrecciate in qualsiasi soggetto, individuale come sociale. Nelle aziende avviene la stessa cosa e in ballo ci sono i valori, gli stessi che il brand rappresenta sin dal suo primo mostrarsi al mercato e al mondo. Da questo momento parte un’avventura che si snoda sul filo dei fatti, che rendono quell’azienda un attore a volte mediocre, a volte unico. E tutto questo è insito in una storia, che può essere scialba o avvincente. Il punto è che il mondo di oggi chiede con forza (perché la Rete ha reso la sua voce più forte) che questo racconto sia autentico e il suo contenuto etico. Proprio per questo motivo le organizzazioni private oggi sono chiamate a prendere posizione su temi di attualità o di politica da cui tradizionalmente restavano fuori: si pensi al caso delle aziende della Silicon Valley che hanno tuonato contro i paletti all’immigrazione posti dall’amministrazione Trump o quello di un’azienda come Ikea che lancia un Family day per introdursi nel dibattito pubblico sulle unioni civili. Il punto è vivere una storia degna di essere raccontata. In altre parole, occorre non solo raccontare una storia, ma essere quella storia. Questo cambia tutto ed è un passaggio comprensibilmente difficile per un’organizzazione, ma assolutamente opportuno in termini di valore e di reputazione del brand.