arte

No U-turn

QUANDO LA GOMMA DA MASTICARE DIVENTA ARTE

di Riccardo Palmisciano

Negli anni 90 inizia a modellare le sue sculture con il chewing gum rosa che diventerà il segno inconfondibile della sua arte. Maurizio Savini coniuga in modo unico l’arte pop con la società, il costume, la politica ed anche tematiche sociali di forte impatto visivo.
Per chi, come Maurizio Savini, si ponga il problema di quale possa essere il senso del produrre immagini in una società alluvionata dalle immagini, la vita non deve essere facile. Non credo sia sufficiente (certo non basta a Savini) invocare condizioni di fruizione diverse, tempi di osservazione più lunghi, un pubblico più sensibile e coltivato. Il rito dell'esposizione in galleria e poi il trasferimento dell'opera d'arte nel chiuso di una collezione privata, da cui uscirà in un futuro non ben precisato per andare a realizzare nuovamente il rito dell'esposizione, condanna comunque questa pratica dell'arte ad appartenere ad una piccola minoranza, per quanto significativa.
Certo, esiste un'altra possibilità, anzi infinite possibilità, che diventano realtà concrete quando l'immagine d'arte, per vie imprevedibili, viene assunta nel flusso vorticoso delle immagini che alimentano il cannibalismo di cui le immagini sono vittime (detto altrimenti, che alimentano l'industria dei consumi culturali). Ridotta a scalpo esibito dal turista ignaro, oppure trasferita sul supporto di una maglietta, di una tazza per la colazione, o semplicemente messa a disposizione per qualunque uso nel web, l'immagine d'arte, ritagliata, decontestualizzata, resa inerme, cade in balia della volontà di chiunque, vittima del logoramento che la fa stingere sempre di più fino a diventare una pallida eco di ciò che era in origine. L'opera d'arte ridotta a sfondo di un paesaggio quotidiano a cui si getta di tanto in tanto uno sguardo distratto.
Di fronte a una situazione così difficile, risultato di un processo di trasformazione che ha comportato un vero cambiamento antropologico, chi, come Savini, si ribella e non ha altro che le immagini da opporre, non può che giocare di astuzia (il grido di protesta, o il gesto provocatorio chiuso nella dimensione estetica, non mi sembra appartenga alle corde di Savini). Del particolare tipo di astuzia di cui sto parlando è prova chiara l'ultima serie di opere di Savini, realizzate con il materiale da sempre a lui caro, ma trattato in modo da renderlo quasi irriconoscibile, come sempre più spesso è avvenuto negli ultimi anni (vedi per esempio la splendida serie dedicata al Risorgimento e ai Borbone in una mostra del settembre 2015 a Caserta). Mi riferisco alla serie delle immagini che riproducono lo schermo danneggiato di uno smartphone in cui è rimasta imbrigliata l'immagine di uno dei personaggi che maggiormente determinano l'immaginario collettivo, ormai non solo a livello popolare. Sfilano in questa galleria di ritratti incrinati Papa Francesco, Obama, Putin tutti ridotti a icone pop, come forse era nelle intenzioni più segrete dei personaggi stessi.
Però, a differenza di operazioni solo apparentemente analoghe del passato, il gioco di Savini è decisamente più sottile, perché l'artista, in questa sfida, entra in competizione con le immagini prodotte dai mezzi di comunicazione di massa simulandole. Se Wahrol elevava a dignità d'arte gli oggetti d'uso quotidiano della società dei consumi, Savini riproduce questi stessi oggetti realizzando dei quasi-sfondi di telefonino, delle quasi-immagini pronte per essere immesse nel web. Tratto in inganno dalla familiarità dell'immagine realizzata, lo spettatore, anche involontario o distratto, è costretto a fermarsi a guardare dall'ambivalenza dell'immagine stessa, perché questi volti sono al tempo stesso straordinariamente consueti e straordinariamente nuovi. Grazie all'incrinatura del vetro del quasi-telefonino, un accorgimento tanto semplice quanto efficace, Savini trasforma il volto noto di Papa Francesco, o di un altro dei potenti del mondo, in una nuova specie di reperto archeologico, emerso dal pack dei ricordi di un'epoca.
Il presente, negato nella sua attualità, diventa oggetto di riflessione.
Per questa via obliqua Savini ha costruito una trappola di significazione a cui lo spettatore non può sfuggire, perché è la sua stessa familiarità con il soggetto rappresentato a costringerlo a guardare. Negare l'attenzione vorrebbe dire mentire, negare di conoscere un personaggio che non si può non riconoscere. Da queste immagini non si può distogliere lo sguardo. Gli occhi non possono fare una conversione a U (ecco spiegato il titolo di questo scritto).
Pure, attraverso l'apparente familiarità si insinua l'elemento che stona, il dettaglio che rende estraneo e incomprensibile ciò che credevamo facile e familiare. Per questa strada Savini ci contagia tutti con l'ombra del perturbante. Ci costringe a guardare con occhi nuovi ciò che credevamo di conoscere.
E se non è la prima volta che questo artista ci chiama ad andare oltre l'apparenza, oltre il carattere delusorio della realtà, mai come in questa serie il discorso si fa sistematico e compiuto; è da questa serie che parte l'appello più forte ad abbandonare il noto per l'ignoto.