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Da Balduina a Capo Nord

Omar Di Felice, ultracyclist romano, di ritorno da Capo nord e in partenza per l'Islanda: pedalare per migliaia di km su ghiaccio e neve, nell'inverno artico su una normale bici da strada.

di Giuliano Giulianini

Trentaquattro anni, romano, cresciuto a Nettuno e tornato poi a Roma, Omar Di Felice è uno di quei ciclisti più abituato a stare sulle due ruote che sulle due gambe. Omar è stato un graphic designer, ma ora è un "ultracyclist": un ciclista estremo, appena tornato dal nord Europa dove ha portato a termine un'impresa ai limiti dell'epopea: 1300 km in 7 giorni, pedalando nel'inverno artico, dalle isole Lofoten, nel mar di Norvegia, al mitico Capo Nord. Mentre leggete queste righe sta ripartendo per l'artico: farà il giro dell'Islanda in bicicletta: altri 1300 km.
L'ho incontrato al Balduina Bikeshop, il negozio specializzato in cui lavora nel nuovo studio di biomeccanica, e dove prepara altri ciclisti consigliando loro materiali, accessori, posizionamento in sella antropometria, piani di allenamento e così via.

Omar, chi è l'ultracyclist?
Mi piace l'avventura, mi piace scoprire il mondo in bici, mi piace mettere alla prova i miei limiti e andare oltre il ciclismo. L'ultracycling inizia dove finisce il ciclismo tradizionale: se le normali competizioni durano 6-7, 8 ore al massimo da lì poi diventa per me estremo, diventa ultracycling vero e proprio, tant'è che le competizioni misurano dai 200 chilometri in su. La mia attività prevede sia competizioni ufficiali di ultracycling, gare di 3-400 anche 1000 km, sia avventure in solitaria. Diciamo che mi sono un po' inventato questo filone dell'avventura in solitaria: stabilisco un percorso e una tempistica, ho un'auto al seguito che riprende l'avventura e giriamo questi documentari sui luoghi che attraversiamo, che poi mettiamo in rete.
Un misto di sport e documentario dunque: non solo per te stesso ma anche per un pubblico.
Per me è esplorazione. Lo faccio per me stesso, questo è chiaro: per prima cosa lo fai per passione, per te stesso, ma mi piace raccontare l'avventura e il viaggio, è una cosa che mi ha sempre attratto. Mi sono sempre piaciuti personaggi come Walter Bonatti (alpinista, esploratore, fotografo e narratore, protagonista di una mostra all'Auditorium fino al 6 marzo, ndr): lui viveva le avventure e le raccontava. Io ho avuto la fortuna di vivere in un'epoca in cui tutto questo è amplificato dalla presenza dei social network e di internet, quindi ho uno strumento in più che in passato non esisteva. Mi sono reso conto, anche dopo l'ultima avventura, che tante persone passano giornate intere a guardare quello che sto facendo. È una cosa molto bella promuovere questo aspetto dello sport.
La tua particolarità è usare normali bici da ciclismo su strada per andare su ghiaccio e neve.
Io nasco come ciclista tradizionale. Certe cose sulla neve si possono fare con le mountain bike, o con le fat bike (le bici con ruote larghe, ndr); si può andare ovunque con quelle bici. Però la mia sfida è andare là dove può arrivare la bici da strada; dimostrare che si può andare sulla neve, sul ghiaccio, si può fare del ciclismo tradizionale anche in condizioni estreme.
La domanda sorge spontanea: quante volte cadi o scivoli?
Facendo le corna, sul ghiaccio e sulla neve sono riuscito a non cadere mai. Il rischio più grande è il traffico durante gli allenamenti, soprattutto nella zona di Roma.
Quando e come hai iniziato a fare ciclismo?
A 14 anni ho iniziato ad andare in bici e ho avuto questa folgorazione per il ciclismo. Vedevo le imprese di Pantani in televisione e mi è scoppiata la passione. Come molti ragazzi ho fatto le categorie tradizionali. Da ragazzo avevo poco tempo per la bici, anche perché mi applicavo molto nello studio. La mia priorità è stata sempre quella: sono laureato in design, ho fatto il mio percorso di studi e poi mi sono dedicato al ciclismo. Mi sono tolto delle soddisfazioni: ho fatto un anno nei professionisti, quindi ho fatto il ciclismo tradizionale come andava fatto. Ho sempre avuto il pallino dell'estremo: mi piace l'alta montagna, mi piacciono le avventure; quindi a un certo punto mi sono deciso ad unire le due cose: l'avventura e l'estremo con la bici.
A quanto ho capito l'ultracycling ha varie specialità: quello nei deserti, quello delle maratone su lunghe distanze e quello sui pendii, sulle montagne. Tu mi sembri un po' più orientato sulle maratone a tappe.
Si fa un po' tutto. L'ultracycling nasce con le bici da strada che comunque sono bici da corsa. Le competizioni non sono moltissime: a dir tanto 40 gare al mondo in tutto l'anno, tra maggiori e minori. Le maggiori saranno una quindicina, non di più: corse che si fanno nei posti più disparati. Ce ne sono alcune in Italia e altre in giro per l'Europa; in America c'è la traversata coast to coast. Poi nessuno pone dei limiti. Ad esempio per le imprese in solitaria prendi la bici e vai; puoi fare qualunque cosa: puoi fare il giro del mondo, puoi attraversare uno stato; puoi arrivare a Capo Nord. A me piace molto l'aspetto da scalatore: sono abbastanza leggero, mi piace molto la montagna, sono molto orientato a quelle sfide. Il fisico è quello dello scalatore (1,75m per 62kg, ndr) poi comunque mi sono attrezzato per fare un po' di tutto.
La tua famiglia ti supporta?
La mia compagna, Sara, mi segue sul posto. Abbiamo creato una bella squadra, perché questa è un'attività che mi assorbe praticamente tutto il giorno, ed anche il mio tempo libero è dedicato a questo.
Lei è sportiva? È del tuo ambiente?
No, però si è appassionata molto a quello che faccio, mi segue, ha sviluppato doti da fotografa, gira i documentari, cura la comunicazione, è molto brava nel raccontare quello che faccio. Siamo una bella squadra: io faccio e lei racconta. Abbiamo creato un bel connubio.
I colleghi del Bikeshop ovviamente ti appoggiano.
Si. Li ho conosciuti un paio di anni fa. Loro conoscevano me, io ho conosciuto il negozio e ci siamo subito trovati perché comunque con i Bernardini (titolari dei negozi Bikeshop di Roma, ndr) c'è un bel rapporto, ed anche con Cristiano (Perazza, socio del Bikeshop, ndr). Si è creato un bel feeling: loro mi supportano, mi aiutano, preparano le bici con cui vado a fare queste avventure; sono tra i miei sponsor, mi danno assistenza per tutto quello di cui ho bisogno, mi fanno da punto di assistenza. E poi si è creato questo rapporto che si sta sviluppando anche in un ambito più professionale, con il discorso dello studio.
Come è nata l'idea di andare a Capo Nord in bicicletta?
Sono sempre stato attratto dal Grande Nord, dal freddo. Avevo iniziato da un anno e mezzo a fare ultracycling e volevo inventare qualcosa di particolare, qualcosa che nessuno avesse mai fatto. Siccome Capo Nord è sempre stata una meta mitologica, ho detto: uniamo le due cose, la bici e Capo Nord. Poi ho pensato che comunque a Capo Nord in bici ci vanno tantissime persone durante l'anno, però nessuno ci è mai arrivato d'inverno, con una bici da strada. Allora ho detto: proviamo a fare in bici la Lapponia e ad arrivare a Capo Nord. La prima volta (un anno fa, ndr) è stata tra mille peripezie: c'è sempre quel pizzico di incoscienza della prima volta; però sono riuscito a raggiungere l'obiettivo. Ho pedalato per 700 chilometri. È stata comunque un'avventura che ha lasciato il segno dal punto di vista fisico e mentale: abituato a pedalare sull'asfalto, con condizioni meteorologiche che, per quanto brutte, sono comunque normali, mi sono ritrovato di colpo catapultato in una realtà completamente diversa. Pedalare sul ghiaccio non è pedalare sull'asfalto. Sono due cose completamente diverse. Quindi ho aspettato un anno prima di tornare al freddo estremo, perché questa cosa mi aveva lasciato un po' il segno. Poi, vuoi o non vuoi, la passione non passa, l'attrazione per il Grande Nord è sempre rimasta. Mi sono detto: ok, torniamo a Capo Nord e facciamo una cosa ancora più estrema. Ho raddoppiato la distanza partendo più a Sud, dalle isole Lofoten.
La bicicletta ha qualche accorgimento particolare? pneumatici? freni?
Sugli pneumatici ci sono degli inserti chiodati per aumentare un po' di più l'aderenza; altrimenti sul ghiaccio vivo la gomma non terrebbe minimamente. È una sorta di gomma chiodata, però l'aderenza non è comunque la stessa che sull'asfalto: serve solamente per aiutare ad avere più trazione.
Chi ti sponsorizza?
Sono testimonial di una marca tecnica per quanto riguarda la parte di abbigliamento, caschi, scarpe e ruote; ho uno sponsor che mi fornisce i componenti per la bici, e il mio sponsor principale per le bici e i telai su cui pedalo. Poi ho tutta una serie di altri sponsor, come quello che mi fornisce le selle. Ci sono anche degli sponsor extra settore che mi supportano: gli orologi con cui registro i dati degli allenamenti; la tecnologia che mi fornisce la connettività quando sono fuori; un network di alberghi che mi dà ospitalità quando mi alleno.
Tu hai superato il limite tra l'amatore e il professionista. Quanto bisogna essere atleti per tentare queste imprese? Lo può fare qualunque amatore evoluto che abbia buona volontà, oppure bisogna avere talento?
Sì, questa ormai è una professione a tutti gli effetti, più come preparazione che come guadagni, ovviamente. Come in tutti gli sport, di base bisogna essere atleti. Molte persone mi chiedono “Come si fa a diventare come te?”. La domanda mi fa un po' sorridere, perché è come chiedere a Totti come si fa a diventare come lui. Non parlo del valore della persona ma di quello che fa. Totti è diventato calciatore in una squadra di Serie A perché di base, comunque, devi avere delle doti d'atleta altrimenti non vai da nessuna parte, e poi imposti la tua vita per fare l'atleta. Se un amatore mi chiedesse “Posso fare quello che fai tu?” gli direi che ognuno di noi può fare quello che vuole, può diventare ciò che vuole se ci mette l'impegno e segue una certa strada, ma di base bisogna essere degli atleti. In più c'è una forte componente mentale, perché parliamo comunque di sfide che, per quanto questa sia la mia professione, sono remunerative entro i limiti del normale. Non parliamo di ingaggi milionari, di cose per cui valga veramente la pena di andare a pedalare a -30 gradi; lo fai se hai la passione, senza quella... Il punto di partenza è sempre e solo la passione. Poi bisogna sviluppare tutta una serie di cose, perché comunque fare l'atleta nel 2016 non è più come una volta: non basta essere bravo. Devi avere doti di comunicazione, saperti rapportare con il tuo pubblico, essere bravo a divulgare, a diffondere quello che fai perché comunque gli sponsor sono sempre più esigenti in questi termini.
Ripensando alle tue due imprese a Capo Nord, la prima più "traumatica", la seconda più organizzata ed anche più complicata, quali sono stati i momenti peggiori? Ci sono stati dei momenti in cui hai pensato “Basta, rimonto in macchina”?
Momenti di difficoltà ce ne sono sempre tanti, perché quando fai una cosa così estrema, così lunga, che ti coinvolge per tanti giorni, per tante ore, è impensabile che non ci sia neanche un problema. Però non sono mai arrivato al punto di dire "Ma chi me l'ha fatto fare? Ritorniamo a casa". Primo perché, di base, è un gran divertimento; secondo perché quando lavori tanto a casa per poter andare lì, prima di ripensarci ti fermi un attimo e pensi: "Ho lavorato così tanto per questo obiettivo. C'è un ostacolo ma si supera".
Il momento più difficile durante l'ultima avventura è stato sicuramente l'ultimo giorno, proprio alla fine: a margine di un inverno comunque molto mite in tutta Europa, ho beccato la settimana più fredda degli ultimi cinquant'anni in tutta la Norvegia del Nord. È stata veramente una sfortuna di quelle epocali.
Oppure una fortuna...
È chiaro che le condizioni estreme hanno amplificato l'impresa, però sarebbe stata un'impresa anche a -20 e non a -30. L'ultimo giorno è stato brutto perché mi sono ritrovato con un principio di congelamento alle dita delle mani e dei piedi, ed è una cosa che non avevo mai sperimentato. Lì per lì fa un po' impressione: vedere queste 2-3 dita che stanno lì bianche, non si muovono, sono morte. Quello è stato l'unico momento in cui ho detto: "Mi fermo un attimo, faccio una pausa, quando mi riprendo, se mi riprendo, riparto, altrimenti non gioco, non rischio la vita.
Quindi le difficoltà, i momenti "pericolosi" sono più legati alle condizioni atmosferiche che al percorso?
I tratti difficili ci sono, perché comunque pedalare su neve e su ghiaccio è sempre insidioso. Ci sono dei punti dove l'asfalto è molto più insidioso che in altri. Dove c'è la neve un po' più morbida riesci ad avere più tenuta, vai piano ma hai più tenuta; sul ghiaccio scorri di più ma finire per terra è un attimo. Però ero pronto, mi ero preparato bene, atleticamente non avevo nessun tipo di problema. È stata più una paura che un'effettiva difficoltà: la paura di arrivare a compromettere la funzionalità di una mano, di un piede per un principio di congelamento.
Quali invece i momenti migliori? Quelli che ti hanno fatto pensare che ne fosse valsa veramente la pena?
Di momenti belli ce ne sono tanti. Indubbiamente i più belli sono i panorami, è qualcosa di... quando stai lì sei veramente immerso nella natura. Non senti il caos della città, non senti nulla del genere. C'è veramente poco di artefatto. Anche il vento, per quanto possa essere forte, non è fastidioso. Quel silenzio che è assordante, perché in realtà se lo ascolti ti entra dentro. L'ambiente è talmente silenzioso... senti i rumori della natura, riesci veramente ad avvicinarti... c'è un contatto particolare con la natura. Poi i colori, sono qualcosa di meraviglioso. La notte artica ti regala quella finestra di 2-3 ore al giorno in cui il paesaggio dà il meglio di sé, il sole dà il meglio di sé. C'è quel tramonto sempre all'orizzonte...
Pedalavi principalmente di notte.
Partivamo la mattina intorno alle 7.30-8 ma comunque era buio pesto come fosse mezzanotte. Il sole sorgeva intorno alle 10 ma già a mezzogiorno calava. A parte quelle due ore pedalavo sempre al crepuscolo e di notte. E poi di notte c'era lo spettacolo più bello: l'aurora boreale.
Hai incontrato animali selvatici?
Abbiamo incontrato solamente due alci, due cuccioli di alce il terzo giorno e poi... bellissimo, non mi era mai capitato: sono passate due aquile in volo molto radente e vicine. Le ho viste da vicino. È stato bellissimo.
Quante persone avevi al seguito?
In macchina avevo la mia compagna e suo fratello. Ho la macchina al seguito perché va raccontata l'avventura, e per sicurezza. Queste cose si possono fare anche con la mountain bike e lo zaino però non è più uno sport: diventa un viaggio. Magari ci metti un mese per arrivare a Capo Nord, è bellissimo, però è diverso dal mio tipo di sfida.
Anche tu lo hai fatto.
Si, sono andato a Santiago di Compostela la prima volta, con uno zaino, da solo. Mi sono caricato lo zaino e ho fatto 300 chilometri al giorno; a metà tra il viaggio e l'impresa.
Dove ti alleni a Roma? Come ti alleni, che strade fai?
La difficoltà principale è uscire dal traffico della città. Solitamente vado nella zona dei castelli romani. La prima mezzora la utilizzo per uscire dal traffico e l'ultima per rientrare nel caos. Però c'è anche da dire che ormai ho preso il mio ritmo, quindi mi piace.
Vai ai castelli perché ci sono le salite?
Mi piace molto allenarmi in salita, con paesaggi vari. Vado nella zona dei castelli perché è quella che conosco meglio, dove ho i miei percorsi: negli anni ho trovato le mie strade. C'è una zona molto bella dove vado a volte a fare degli allenamenti di distanza: i Monti Simbruini, Vicovaro, Tivoli, la Tiburtina fino all'Abruzzo. Lì mi sbizzarrisco perché non passa un'anima viva, non c'è traffico, trovo tutte le montagne che voglio e mi diverto veramente tanto. Solitamente una volta a settimana prendo la bici e vado più in là.
Tu sei anche un fotografo. Dammi due o tre immagini che ti sono rimaste di questo raid, che hai scattato o avresti voluto scattare.
La cosa più bella è stata sicuramente l'aurora boreale, l'ultima notte, arrivato a Capo Nord. Mi sono riposato, sono sceso, ed è apparsa quest'aurora boreale; tra l'altro, mi hanno detto, una delle più belle di tutto l'inverno. Da appassionato di fotografia ho preso il cavalletto e mi sono messo a scattare. Poi sicuramente è emozionante quando vedi la montagna che finisce nel mare nella zona dei fiordi: degli scorci bellissimi. Io sono un bel rompiscatole, dicevo sempre ai ragazzi e alla mia compagna: "Fotografa qua, fotografa là, fai questo, fai quello", quindi le foto più belle alla fine sono quelle che ha fatto lei. Ne avrei voluto fare tante. Avrei dovuto rifare il viaggio al contrario per fermarmi a fare le foto. Purtroppo non posso fare tutto, mi accontento della pedalata.
Quando questa intervista uscirà a metà febbraio con il giornale tu sarai alla vigilia di un'altra partenza.
Sì, c'è stata questa cosa inaspettata dell'Islanda. Quando abbiamo progettato la seconda avventura a Capo Nord non c'erano problemi. Senonché, dopo i fatti di Parigi di fine anno, era novembre mi sembra, mi hanno contattato da parte dell'ente del turismo norvegese per dirmi che non sapevano se avrebbero potuto darmi i permessi. Avevo già contattato gli sponsor, preso gli accordi e mi sono chiesto che fare. Intanto avevo preso dei contatti anche in Islanda, un paese dove in passato avevo fatto dei viaggi fotografici. È un Paese che mi piace moltissimo. Quindi ho preso degli accordi pensando che se non fossi andato in Norvegia avrei provato in Islanda. Poi in Norvegia la situazione si è sbloccata. Mi sono trovato a dover scegliere e, proprio mentre ero a Capo Nord, c'è stato un momento, al penultimo giorno, che ho guardato verso il mare e ho pensato: "Mi dispiace che domani finisca qui a Capo Nord: dobbiamo ripartire e andare in Islanda". Così è nata questa cosa. Farò tutto il giro dell'Islanda: 1.350 chilometri. È una cosa molto impegnativa: l'Islanda rispetto alla Norvegia ha delle temperature più miti, c'è meno clima rigido da tundra siberiana, però c'è più variabilità, più vento, più pioggia. Sarà molto più ostica, secondo me, anche perché partirò ad un mese dalla fine dell'impresa a Capo Nord quindi non so come il fisico possa reagire.
Infatti, pensavo che come per i maratoneti, fatta una maratona poi dovessi aspettare dei mesi prima di poterne fare un'altra.
Diciamo che è meno traumatico. Ho già fatte imprese a distanza di un mese. Quello che un po' mi spaventa è il freddo. Il mio fisico ha preso sette giorni di freddo vero: a -30 ho fatto una performance agonistica, andando intorno ai 22,5-23 km/h di media; non sono andato a fare un viaggio di piacere. Non so come potrà reagire il corpo esposto ad altri sei giorni di freddo. Sarà una scoperta anche per me.
Molti nostri lettori leggeranno quest'intervista mentre tu starai partendo o girando per l'Islanda. Come potranno seguirti?
Dalla pagina facebook (www.facebook.com/omar.difelice) e dal profilo di twitter (www.twitter.com/omardifelice). Durante il viaggio a Capo Nord facebook è stato preso d'assalto: un boom inaspettato, moltissima gente ha iniziato a seguirmi durante l'avventura perché la mia compagna, Sara De Simoni, ha un modo di raccontare le cose che ha coinvolge le persone in quello che faccio. Fino ad un certo punto della storia dello sport le avventure erano: è partito questo esploratore per fare questa cosa... è tornato... è stata fatta l'impresa... documentazione con foto. Ci si credeva sulla fiducia: me lo racconta, porta le foto, le prove, e deduco che l'abbia fatto. Io invece voglio portare lo spettatore "dentro" le mie imprese, le mie avventure. Voglio fargli vedere che è reale, voglio fargli capire quello che c'è dietro e soprattutto quello che c'è durante, perché è coinvolgente. Mi sono accorto che tanta gente ha piacere di aprire i social network per vedere che c'è qualcuno nel mondo che sta facendo delle cose. Se c'è tanto interesse per mettere delle telecamere a spiare la casa del Grande Fratello, dove non fanno nulla, allora perché non portare gli appassionati a sognare? Perché mi rendo conto che per tanti è come far parte di un'avventura, me lo hanno anche scritto e detto: sognare ad occhi aperti e vedere qualcosa che probabilmente non faranno mai nella loro vita.
Qual è il tuo raid dei sogni?
Ho avuto la fortuna, e in parte la bravura, di fare sempre le cose che mi piaceva fare. Quando ho avuto un sogno l'ho realizzato, non dico subito, ma entro breve. Ci sono dei posti che mi piacerebbe esplorare nel mondo e ho un progetto: le cime più alte del mondo. Mi piacerebbe arrivare in bici sulle strade carrozzabili più alte del mondo.
Dove? In Nepal?
Ci sono delle vette in Nepal, c'è una vetta alle Hawaii, ci sono delle vette anche sulle Ande. Mi piacerebbe scoprire le montagne più alte, ma non come sui passi al Tour de France: intendo le salite più alte del mondo. E poi ci sono altri posti, come ad esempio il Sud del mondo. Adesso sto esaurendo il discorso del freddo artico, tutta la parte Nord del mondo. Mi piacerebbe capovolgere l'emisfero e dire: "Andiamo a fare cycling estremo in Patagonia, nella Terra del Fuoco e, perché no? al Polo Sud. Ecco, nel mio immaginario tutto questo potrebbe finire all'Antartide. Ci sta.
Oggi c'è un ventaccio freddo qui a Balduina. Com'è l'inverno a Roma?
Proprio oggi sono uscito con tanti amici che mi hanno detto "Guarda che c'è tramontana, fa freddo". Guardo le previsioni: calo delle temperature; sono uscito: c'era il sole, 14 gradi. C'era vento, comunque fastidioso, però mi son detto che ho una concezione, una percezione del freddo, diversa da quella che hanno gli altri, ma è normale che sia così quando ti esponi a certe temperature estreme. Abituarsi al freddo effettivamente ti cambia. Non ho mai amato il caldo: mi piacciono le condizioni estreme ma se mi chiedi se preferisco pedalare nel deserto a 50 gradi o a -30 in Norvegia rispondo "pedalare in Norvegia".