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Attilio Caja, terzo tempo con la Virtus

di Fabrizio Cicciarelli

Non c’è due senza tre. E’ quello che deve aver pensato Attilio Caja alla fine dello scorso ottobre, quando il presidente Claudio Toti lo ha richiamato alla guida di una Virtus Roma confusa e insicura, ventuno anni dopo il suo primo approdo all’ombra del Colosseo. Record di presenze sulla panchina della Capitale, una Supercoppa Italiana in bacheca, “Artiglio” è pronto a graffiare Roma per la terza volta.

Coach, terzo inizio alla Virtus Roma. Come si sente?

«Tornare alla Virtus mi ha dato una bella sensazione. In realtà è come se non me ne fossi mai andato, ormai da qualche anno mi sono stabilito a Roma perché qui ho tanti amici sia dentro che fuori dalla pallacanestro. Anche quando ho allenato in altre città sono sempre tornato qui nei giorni di riposo o nei mesi di inattività, ma essere nella Capitale a “pieno regime” è molto piacevole. Ho accettato di corsa, avere l’opportunità di lavorare nuovamente con il presidente Toti, con il quale avevo cominciato la mia seconda parentesi alla Virtus, mi ha dato grandi stimoli e motivazioni. Per me Roma è una città importante a prescindere dalla categoria, è speciale in ogni sua sfaccettatura e può vantare grande storia e tradizione cestistica».
Biella, Reggio Calabria, Barcellona, Omegna e Siena. Cinque su cinque. Cosa è successo?
«Ci siamo rimessi in marcia grazie al lavoro quotidiano, siamo partiti da una situazione difficile cercando di intervenire di pari passo sia sull’aspetto mentale che su quello tecnico, perché bisognava restituire fiducia e autostima a un gruppo che aveva subìto e assorbito lo scoramento dell’ambiente.
Allo stesso tempo dovevamo individuare le problematiche tecniche, capire ciò che andava messo a posto offensivamente e difensivamente per trovare la giusta continuità a livello di sistema, oltre che i riferimenti necessari a cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà. Ci siamo riusciti, ma solo la disponibilità di tutti ha reso possibile questo accadesse in così poco tempo».
Eppure sullo 0-6 la situazione si era fatta rovente…

«Nonostante tutto ho sempre pensato che fossimo sulla strada giusta, perché quelle sconfitte sono state il frutto di episodi. Contro Casalpusterlengo abbiamo perso al supplementare dopo una partita in cui i lunghi avversari hanno realizzato un incredibile 8/10 dall’arco, mettendoci del nostro grazie allo 0/2 ai liberi nel momento decisivo. Stessa cosa ad Agropoli, con un tiro libero sbagliato a 6 secondi dalla fine e il buzzer di Roderick subìto a un decimo di secondo. Però al netto dei risultati si vedeva che il cammino intrapreso era buono e che aggiustando delle piccole cose avremmo potuto fare meglio. Così abbiamo applicato dei correttivi sia in difesa, dove la squadra ha cominciato a giocare bene sia a zona che a uomo, che in attacco, individuando i nostri punti di riferimento e trovando la giusta lucidità per andare dall’uomo giusto al momento giusto. In poco tempo siamo diventati una buona squadra, e questo grazie al sacrificio e allo spirito positivo che i ragazzi hanno avuto ogni giorno».
Quali sono gli aspetti di cui è maggiormente orgoglioso?

«Sicuramente l’aspetto temporale perché abbiamo bruciato le tappe, andando ben oltre le aspettative. Sono orgoglioso per l’ottima atmosfera che si è creata in palestra, c’è una serenità che ci consente di lavorare duramente sia a livello mentale che fisico. Tutto diventa meno difficile, i ragazzi ti seguono e hanno voglia di essere aiutati, mi fa piacere potergli dare una mano e vederli prendersi una rivincita nei confronti di chi li aveva bollati come “scarsi” troppo in fretta».
Cos’è che invece deve essere migliorato?

«Forse dobbiamo affinare qualcosa a livello individuale. Penso che Olasewere possa e debba migliorare molto, dopo aver disputato campionati di livello inferiore è al debutto in Italia e deve reggere il confronto con una realtà diversa. Deve migliorare soprattutto dal punto di vista della durezza mentale, l’aspetto tecnico per certi versipassa in secondo piano. Mi aspetto qualcosa di più a livello di leadership tecnica anche da parte di Voskuil, che deve essere più aggressivo e prendersi più responsabilità senza aver paura di sbagliare».
Facciamo un passo indietro. C’è un momento della sua esperienza capitolina a cui è particolarmente legato?

«Devo dire che nella mia carriera ho potuto togliermi molte soddisfazioni e faccio fatica a scegliere un solo momento, perché più ci penso e più gli eventi aumentano. Sicuramente uno dei ricordi più belli è legato al mio primo anno qui a Roma: nel 1994 la squadra era stata ripescata dopo la retrocessione e praticamente era composta da giocatori di A2, eravamo i candidati principali alla retrocessione e alla prima gara stagionale di Coppa Italia giocammo al PalaEur con 20 spettatori, e non esagero. Cominciammo il campionato con 4 vittorie su 5 e nel giro di qualche mese gli spettatori passarono da 20 a 5000. Fu un’emozione pazzesca, quella “Cenerentola” raggiunse i playoff contro pronostico».
E la Supercoppa del 2000?

«Vinta contro la Kinder del “Grande Slam”, quella di Messina, Ginobili e Rigadeau… Ero appena tornato a Roma, l’inizio del campionato fu posticipato a causa dei Giochi Olimpici di Sidney e venne introdotto questo torneo in cui tutte le squadre di A1 e A2 si sfidavano in piccole “conference” geografiche. Alla fine arrivammo alle Final Four di Siena insieme a Treviso e alle due bolognesi, battendo prima la Fortitudo e poi la Virtus, fummo gli unici in grado di soffiare un trofeo alle “V nere”».
Quali sono le città in cui si è trovato meglio?

«Roma a parte, in cui ho vissuto solo anni bellissimi, ricordo con piacere tanti posti in cui ho lavorato. A partire da Milano, dove entrai dopo sei partite con la squadra ultima con un record di 1-5, alla fine arrivammo in semifinale playoff uscendo per mano di Siena. Ma penso anche agli anni molto positivi di Cremona, alla salvezza con Roseto in una situazione societaria difficile o all’esperienza di Rimini. Senza dimenticare l’ultima stagione a Varese, dove tutti erano demoralizzati e sembrava fosse necessaria una rivoluzione, ma senza fare cambiamenti siamo riusciti a mettere in fila una serie di risultati notevoli».
Dove è stato invece più difficile lavorare?
«A Udine ho vissuto una parentesi negativa, più dal punto di vista personale che professionale, fui il primo di tre allenatori in una sola stagione. Più recentemente direi Firenze, dove mi era stato prospettato un progetto che non si è mai concretizzato nei fatti. Pensavo che in una città così importante si potesse puntare a fare una pallacanestro di livello, mi fu proposto addirittura un contratto di tre anni. Poca professionalità e zero chiarezza, io avevo creduto a tutto ma alla fine non si è avverato nulla di quanto promesso».