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Tommaso Rocchi

Un traguardo da raggiungere: 200 gol

Di Valeria Barbarossa

Abbiamo incontrato l’ex capitano della Lazio che al momento gioca in Ungheria. Riassume tra pensieri e considerazioni un soddisfacente percorso calcistico iniziato tra le vie di Venezia trent’anni fa. Ha solo un rammarico: “Se me ne avessero dato la possibilità, avrei tanto voluto concludere la mia carriera con i biancocelesti”

Tommaso la tua passione per il calcio com’è nata?
È iniziata da bambino. Giocavo per le stradine di Venezia con i miei fratelli più grandi, il pallone ci finiva sempre in acqua! A nove anni ci siamo trasferiti a Mestre dove ho giocato nelle giovanili del Venezia dai pulcini ai giovanissimi, poi quattro anni alla Juve di cui due negli allievi e due nella primavera. Lì è stato molto pesante ed ho dovuto sopportare tanti sacrifici. Ogni volta che tornavo a casa non volevo più andar via, questo almeno per un anno. Mi ha dato la forza solo la convinzione che quella sarebbe stata la mia strada.
Ti rivedi nei bambini e nei ragazzi di oggi che giocano a calcio?
Il calcio dovrebbe essere prima di tutto un divertimento. Poi, coloro che vogliono arrivare, devono essere disposti a fare dei sacrifici e tanti dei ragazzi di oggi non mi sembrano così propensi. Nel calcio a livello professionistico, come in tutti gli altri sport, ci vuole disciplina, regole e il saper rinunciare a tante cose.
Qual è stata la partita che ricordi con più emozione?
Sicuramente il mio esordio in serie A con l’Empoli. Abbiamo giocato contro il Como e abbiamo perso. E poi come dimenticare la tripletta, sempre con l’Empoli, contro la Juve… fu davvero emozionante.
Hai trascorso nove anni alla Lazio, qual è stata la partita più bella?
Il mio primo derby il 6 gennaio 2005 in cui vincemmo 3 a 1. La Lazio veniva da una serie di derby persi quindi il clima era molto teso. Poi tra le partite che ricordo con più piacere sicuramente la vittoria della Super Coppa a Pechino: ero capitano, ho segnato, ho vinto… un’enorme soddisfazione personale.
È difficile psicologicamente giocare il derby di Roma?
Be’ ci sono molte pressioni. Tanto per darti un’idea: dopo la vittoria del 6 gennaio, nei giorni successivi mi vennero a consegnare l’acqua a casa e il ragazzo mi disse: “Rocchi mi raccomando il derby!” e io gli risposi: “Ma abbiamo appena giocato!”. Questo per farti capire quanto è sentito: già pensava al prossimo! Ho giocato più di quindici derby e tutti li sentivo fortemente ma la pressione mi faceva da stimolo.
In quest’ultimo derby approvi la scelta dei tecnici di non schierare in formazione neanche un giocatore romano?
Credo semplicemente che gli allenatori abbiamo fatto la scelta più giusta a livello tecnico e tattico. Che poi ci siano troppi stranieri è un altro discorso.
Quali sono le differenze tra il calcio di oggi e il calcio di ieri?
Tecnicamente parlando, andando avanti la preparazione fisica è migliorata grazie a strutture e macchinari che anni fa non c’erano. Da un punto di vista “sentimentale”, un tempo c’erano più idoli. Ricordo che da piccolo andavo allo stadio per veder giocare Giuliano Fiorini, oggi i campioni li seguono per imitare il taglio di capelli o l’esultanza. In linea generale poi, il livello calcistico si è abbassato: ora c’è il fuoriclasse e tutti gli altri gli girano intorno.
Come ti sembra la Nazionale di Conte?
Non è paragonabile a quella del 2006 ma ha un grande allenatore. È un vincente, ha una buona squadra e credo che saprà valorizzare l’organico.
La differenza invece tra gli allenatori di oggi e quelli di ieri?
Partiamo dal principio che un bravo allenatore è colui che sa mettere i giocatori nelle migliori condizioni. Poi la differenza sta tutta nella mentalità. Gli allenatori di oggi, giovani, come Montella ad esempio, si aggiornano e sanno stare al passo con i tempi e con l’innovazione. Gli allenatori di ieri però avevano un buonsenso quasi paterno che con giocatori giovani non guasta mai.
Qual è stato il momento più difficile della tua carriera?
Alle Olimpiadi del 2008. Mi sono fatto male il giorno prima dell’esordio. Ho giocato lo stesso, ho segnato, abbiamo vinto ma stavo male. Dopo gli accertamenti è uscito che mi ero rotto il perone. Due mesi fuori e al rientro in campionato al mio posto era subentrato Zarate. Ho giocato meno quindi mi sono sentito un po’ estromesso. Psicologicamente è sempre molto dura rimettersi a scalare la montagna per riguadagnarsi la fiducia dell’allenatore.
Perché sei andato in Ungheria?
Avrei voluto concludere a Roma la mia carriera ma purtroppo per scelte societarie non mi è stato concesso. Amo la gente laziale e i tifosi per i quali nutro grande rispetto. Mi hanno sempre sostenuto sia nei momenti positivi che negativi. Fatta questa premessa, dopo la Lazio sono andato all’Inter ed è stata comunque una bella soddisfazione. Poi sono andato a Padova in B ma anche lì ci sono stati problemi societari. Avevo ancora voglia di giocare, mi si è presentata l’opportunità di andare in Ungheria e l’ho presa al volo. E poi mi mancano 2 gol per arrivare a 200… ho un traguardo da raggiungere! Vestirai i panni di allenatore?
Nella vita mai dire mai ma penso di no. Ho due bambini e un terzo in arrivo, amo il calcio ma non mi va più di fare la vita che ho fatto per trent’anni sempre in giro. Mi vedo più in una scuola calcio… chissà.